Ludovica. Noir atipico. Nona parte

Ludovica. Noir atipico. Nona parte

Racconto di Salvatore Conaci

Non erano neanche le venti, quando rincasando sono passato bellamente davanti al caffè che affaccia al mare. L’ho superato velocemente, a testa bassa, facendomi spazio tra la folla di ragazzi davanti all’ingresso, ma da lì a cento metri mi sono accorto che nel silenzio della sera i miei passi non erano gli unici. Mi sono acceso una sigaretta senza smettere di camminare, ma poi qualcuno mi ha chiamato. «Fermati, testa di cazzo!»

Mi sono voltato e l’ho visto, lo stronzetto figlio di papà. Se ne stava tra due energumeni. Aveva l’aria corrucciata di un bamboccio a cui avessero tolto un giocattolo. «Tu sei grosso, ma questi sono più grossi di te», mi ha urlato. E gli energumeni sono partiti. Sembravano tori, e mi guardavano con disprezzo, come se mi fossi scopato le loro madri.

«Posso fare qualcosa per voi?», ho chiesto loro.
«Sì, avvicinati, dobbiamo parlare», ha risposto il più sveglio.

E io mi sono avvicinato. Senza smettere di fumare ho chiesto loro se fossero maggiorenni. Si sono guardati in faccia, perplessi. «Sì», hanno risposto insieme, «perché?»

«Perché certi discorsi sono solo per adulti.»

Non ho dato loro il tempo di capire; era un lusso che non potevo permettermi. Mentre spegnevo a sorpresa la sigaretta sulla palpebra di uno, ho colpito l’altro con un destro sul naso: il secondo è caduto subito, è quello che accade se mi lasci il tempo di colpire, fanculo; il primo si stava staccando la brace dalla palpebra, quando gli è arrivato il mio gancio sulla mandibola. Le mie nocche facevano male, ma avevo sentito le ossa di quei due deficienti sgretolarsi a entrambi i colpi. Non mi è dispiaciuto neanche un po’. Ho calpestato loro le mani, superandoli per raggiungere lo stronzetto.

Stava per farsela addosso. Gli tremavano le gambe; non scappava solo perché davanti al locale si era creato un capannello di curiosi, ed evidentemente credeva di avere una reputazione da difendere. «Sei pallido. Hai l’influenza?»

«Toccami e ti denuncio», ha sbraitato.

Ho fatto un gesto teatrale per tirare fuori il mio distintivo. Ha creduto che stessi per tirargli un cazzotto, e si è coperto il volto. Si è ripreso solo dopo aver visto la patacca col numero di qualifica. Faceva pena. «Vieni con me da tuo padre o gli telefono e lo faccio arrivare qui davanti a tutta quella gente? In alternativa posso fare una telefonata in questura. Decidi tu.»

«Conosci mio padre?»

«Non sai un cazzo, ragazzo. Hai proprio la faccia di chi non sa un cazzo. Te lo chiedo per l’ultima volta: andiamo insieme da tuo padre?»

Mi ha scortato fino a casa sua senza fiatare. Suo padre ci ha visti insieme nel videocitofono ed è sceso in giardino in preda al panico. Indossava una vestaglia blu di seta con le iniziali sul taschino. Che disagio.

Leggi anche:
Prima parte di Ludovica
Seconda parte di Ludovica
Terza parte di Ludovica
Quarta parte di Ludovica
Quinta parte di Ludovica
Sesta parte di Ludovica
Settima parte di Ludovica
Ottava parte di Ludovica

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