Eremi nel nostro immaginario e nella realtà

Eremi nel nostro immaginario e nella realtà

Articolo e foto di Angelo Maddalena

Arrivare all’Eremo di San Pietro alle Stinche è sempre un ritrovare e ritrovarsi nella convivialità serena e gioiosa che spesso cerchiamo nel nostro quotidiano, e che dà quella pace e quella vitalità spirituale di cui tanto abbiamo bisogno profondamente. Ritrovare frate Lorenzo e fra Giancarlo, e poi Eliseo, e il cane Daleth, “quarta lettera dell’alfabeto ebraico”, come mi ricorda Eliseo.

Se qualcuno volesse immaginare i frati con le tuniche, non è questo il caso: pantaloni e maglioni o cardigan blu, ma anche pantaloni alzati sulle ginocchia per un salto nell’orto o nel campo intorno all’eremo. Infatti, quasi tutto quello che mangiamo viene dall’orto, per esempio il sugo di pomodoro nella pasta che mi accoglie al mio arrivo, nel primo pomeriggio, “fatto con i nostri pomodori”, ci tiene a precisare fra Lorenzo. “Invece la vigna non ce l’abbiamo più, e adesso il vino lo procuriamo al di fuori dall’eremo”, mi annuncia frate Lorenzo, dopi avermi chiesto da quanto tempo non venivo.

“Dalla vendemmia del 2020”, dico, aggiungendo nella mia mente. Quella è stata forse l’unica volta, in età adulta, che ho aiutato in una vendemmia. “Sì, l’ultima vendemmia”, mi dice lui. Certo, nel cuore del Chianti, non sarà difficile trovare il vino, visto che passeggiando per i sentieri qui intorno, e anche aggirandosi a Panzano in Chianti, a pochi chilometri dall’eremo, cartelli spersi nella campagna e insegne davanti ai negozi ti parlano del nettare degli Dei, che qua è veramente da Dio!

L’eremo Le Stinche l’ho scoperto “grazie” alla pandemia, e forse anche alla morte di Maria, mia madre, avvenuta il 21 marzo 2020. La necessità di rimanere a casa e la possibilità di raccogliersi e approfondire la ricerca di senso, così come la morte di mia madre, maestra di preghiera e frequentatrice di eremi, da Bose a Spello, mi hanno fatto entrare meglio in certi meandri fino ad allora inesplorati. Per esempio, per dire come il nostro immaginario vede gli eremi, devo raccontare di un ragazzo che più di dieci anni fa mi aveva parlato dell’eremo Le Stinche, ma non so per quale ‘deviazione’ del mio immaginario, avevo classificato quell’eremo come un luogo da evitare.

Sarà che quel ragazzo era un fricchettone e mi aveva detto che all’eremo Le Stinche ci stava un soltanto eremita; solo quando ho sentito nominare a Ermes Ronchi, in una conferenza su You Tube rintracciata nella primavera del 2020, ho avvertito il bisogno di approfondire. Però attenzione, l’immaginario comune rappresenta gli eremi, spesso, come luoghi sperduti. Inoltre, se ne conoscono pochi e quando si conoscono, si pensa sempre male! Un esempio è stato uno scambio fra due signore che ho incontrato in un negozietto di Panzano, durante una delle passeggiate per conoscere il centro storico.

Una mi chiede se i frati vanno a fare la spesa, “come si procurano da mangiare?”, perché forse pensa che non abbiano né un automobile né un orto, né la voglia di impastare e infornare il pane, come invece fa fra Renzo, proprio in quei giorni che c’ero io (un pane con tanti cereali buonissimo, di colore scuro, ovviamente). L’altra signora se ne esce con questa osservazione: “Ma sì che escono, uno di loro lo vedo ogni mattina che viene a comprare il giornale all’edicola, altro che eremiti”, allora io le rispondo così: “E meno male che escono per comprare il giornale, sarebbe grave se non lo facessero”, e penso alla copia del quotidiano La Repubblica che avevo trovato sul tavolo della sala comune dell’Eremo.

Poi, sempre parlando dei frati, dico alle signore quello che mi ha raccontato fra Giancarlo, a proposito del fatto che ognuno di noi, con il battesimo, diventa sacerdote, re e profeta. “Ed è una rivoluzione, se ci pensi, perché tutti, anche i poveri, hanno dignità regale”. La signora della prima domanda, che ha l’aria sbarazzina, vuole precisare: “Anche le donne quindi?”, e io dico “Certo”, tra l’altro, nel caso dei frati delle Stinche, c’è un’attenzione particolare alla dignità della donna, perché fanno parte dei Servi di Maria, congregazione fondata nel 1200 dai cosiddetti Sette Santi, sette amici e fratelli fiorentini, ai quali è dedicata una Chiesa e un complesso ricettivo di Firenze, cioè un ostello che prima era un monastero.

Da quando ho cominciato ad abitare in un Eremo in Calabria, quasi un anno fa, ho riscontrato “anomalie” dell’immaginario rispetto alla vita negli eremi: qualcuno mi ha chiesto se potevo uscire, per andare al cinema, per esempio, ma io uscivo quando volevo, così come altri che stavano con me, perché don Giovanni, che ci ospitava nel suo eremo, tra le altre cose, esce anche lui, sia per dire le messe che per incontri culturali, per presentare i suoi libri e per tenere conferenze! In breve, come mi disse poi Mirella Muià, eremita di rito bizantino a Gerace, “molta gente confonde l’eremo con la clausura”.

Muovendomi poi lungo lo stivale, scopro che l’Italia, più che terra di Santi, poeti e naviganti, più precisamente è una terra di “monaci ed eremiti” che poi sono diventati, in certi casi, Santi. Quando chiedo a Mirella come mai c’è questa totale rimozione e questo luogo comune sugli eremiti di oggi, a partire dalla signora che si stupiva perché vedeva il frate che andava a comprare il giornale, lei mi risponde così: “Il luogo comune è storicamente sbagliato, perché la gente, qui da noi, è fissata sugli schemi medievali, non su quelli dei padri del deserto, che erano spesso erranti, che erano in relazione con le città, sia perché molte persone ci andavano, sia perché qualche patriarca invitava alcuni eremiti a fare delle prediche in città. Lo schema medievale ha fatto sì che questo luogo comune si sia radicato. Soltanto nel medioevo tutto è diventato rigorosamente rigido. I reclusi erano reclusi, i monasteri di clausura erano comunità ma tutte chiuse”.

Vero è che l’Europa è stata salvata dai monasteri benedettini, come spiega Paolo Rumiz nel suo recente libro “Il filo infinito”. È curioso notare come questa consapevolezza, magari esplicitata in altri termini, me la riporti Adriano, un mio amico decisamente ateo: “È davvero strano vedere tanti cercatori di assoluto che si fiondano in centri e monasteri buddisti occidentali, quando ci sarebbero fior fiori di monasteri e di eremi in Italia così come in altre parti d’Europa”.

Io aggiungo che ci sono eremi, come quello delle Stinche, in cui si trovano libri e riviste che rimandano a tradizione spirituali orientali, buddismo zen e altro ancora. Questa consapevolezza spazzata via dalla superficialità e dal conseguente consumismo spirituale, era presente in Giacomo Leopardi, all’inizio del XIX secolo, e in don Lorenzo Milani, alla fine del XX secolo, i quali, con linguaggio diverso, indicavano un ritorno ai monasteri per arginare la tendenza alla dispersività della modernità e dell’epoca del consumismo.

Una testimonianza incoraggiante, a proposito degli eremi rivalutati, l’ho raccolta a Pistoia, un mese fa, al circolo Ho Chi Min, dove ho presentato un mio spettacolo. Un mio coetaneo, di formazione comunista, come molti che frequentano quel circolo, mi dice di avere trascorso un lungo periodo in un eremo in Toscana, in cui si pregava anche di notte; ma questo non lo ha scoraggiato a rimanerci per circa tre mesi. Forse bisogna ripartire da qui, da queste “minoranze creative”, per usare un termine usato da don Mario de Maio, dell’associazione Oreundici di Civitella San Paolo. Un Eremo che è anche un centro culturale, in cui si trovano riviste e libri di Carlo Molari e Arturo Paoli.

Sono questi altri “fari” o “briciole” lungo la strada, che possono guidarci nella ricerca di senso, con uno stile da “credenti laicamente nel mondo”, come suggerisce il titolo di un libro di Carlo Molari.

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