Ludovica. Noir atipico. Seconda parte

Ludovica. Noir atipico. Seconda parte

Racconto e foto di Salvatore Conaci

«Due sconosciuti per una porzione di patate. Italo Calvino ci avrebbe scritto un romanzo», ha ridacchiato.
«Leggi?», le ho chiesto.
«I russi. Gl’italiani sono noiosi e spesso sopravvalutati.»

Così le ho detto che se ne poteva parlare, che avremmo potuto mangiare insieme la mia e la sua porzione litigando sugli scrittori italiani. E lei ha accettato. Ci ho provato, a difendere Calvino. Ci ho provato davvero. Ma quando lei ha argomentato con Puškin io mi sono arreso. Chi siete voi? — Un infelice, vittima di una passione disperata. E perché, io cos’ero? Ero già pazzo di lei, contro la mia stessa merdosissima volontà.

«Cosa fai nella vita? Quanti anni hai?», le ho chiesto.

Ma lei ha guardato l’ora sullo smartphone che teneva in una pochette, e si è irrigidita. «Andiamocene. Ora», ha fatto, con un filo di voce. Non mi sono posto domande. Non ho esitato. È stato tutto consequenziale, come l’incendio di un bosco dopo un fulmine a luglio: ho lasciato una banconota sul bancone mentre lei si avviava, e un istante dopo eravamo fuori. E fanculo all’appostamento, fanculo all’incarico, fanculo a capire la destinazione dei regali dell’adolescente deficiente colossale. Mi ha preso per la mano, e mi ha trascinato in un vicoletto agitato di gente e di volute di vapore di caldaia, illuminato appena da un paio di lampioni sospesi. Si è fermata davanti a una violinista di strada, e mi ha tirato a sé.

«Non ballo, non ne sono mai stato capace.»

Lei non si è scomposta. «E allora guardami ballare.»

E cazzo, se ha ballato. Divertendosi, fino a sfiancarsi. Ha ballato senza me, ma non era sola. Danzavano con lei le luci dei lampioni basculanti, che le cingevano i fianchi come avrei voluto fare io; e le gocce di sudore che si levavano dalle punte dei suoi capelli a ogni giravolta, scintille attorno a una miccia appena innescata; e le note acute, i ritornelli arzigogolati, le pause maliziose. Ha volteggiato a lungo sull’asfalto bagnato, avvolta dal vapore come da un velo di chiffon. E poi si è fermata, con un sorriso indecifrabile.

Lo sguardo solo per me, i capelli mesciati lungo il viso sudato, la bocca schiusa per il fiato corto. Era erotica. Tutta. Aveva fatto nascere in me un desiderio ormai irresistibile, innascondibile. Mi è venuta incontro. «Da questa parte», ha sussurrato, afferrando il colletto della mia giacca di pelle. Ho fatto in tempo a gettare un’offerta nella custodia della violinista, e mi sono lasciato trascinare. Abbiamo abbandonato il vicolo, e ci siamo ritrovati davanti a una scaletta isolata, in cemento rustico, calante giù ripida fino a una spiaggia.

Era buio, e l’aria sapeva di piscio e birra da discount, ma l’avrei seguita ovunque. E deve averlo percepito, perché si è voltata a sorpresa prima del primo gradino, e mi ha baciato con veemenza. Mi ha graffiato il collo col french, ma che m’importava? La sua bocca era la porta terrestre del Paradiso. Le ho affondato le dita nelle fessure del vestito che le lasciavano scoperti i fianchi. Mi ha fermato subito. «Non qua.»

Leggi anche:
Prima parte di Ludovica

Post correlati