Ludovica. Noir atipico. Quinta parte

Ludovica. Noir atipico. Quinta parte

Racconto e foto di Salvatore Conaci

L’avevo persa. Perché lei era una liceale, dannazione. L’avevo scoperto troppo tardi. L’avevo scoperto dopo averla vista, dopo che lei aveva visto me. Dopo che gli eventi ci avevano usati a loro piacimento. Dopo che ci eravamo spinti oltre una soglia definitiva. Ero stato con una liceale; e lei era stata con un quarantenne. Mi facevo paura. Avrei voluto caderle ai piedi e implorare il suo perdono.

Perdonami, Ludovica. Perdonami! Ma come potevo sapere? Mi spieghi come potevo sapere? Guardati, Ludovica, là seduta tra i tuoi coetanei. Guardati da dove ti guardo io: cosa c’entri con tutti loro? Sei diversa, sei altro. Ho sentito altro, quando ci siamo visti. C’era qualcosa. Qualcosa in te, fuori di te, tutt’intorno a te. Qualcosa che non mi ha lasciato scampo.

Perdonami!, avrei voluto gridare in quel momento. E invece ho tenuto un’ora di lezione e sono scappato verso la mia auto in preda all’angoscia, senza curarmi delle presenze, di salutare i docenti, di osservare i movimenti dell’adolescente che avrei dovuto pedinare. Ludovica. La volevo così disperatamente, ma ora ne ero terrorizzato. Ho guidato fino a una pineta distante circa duecento metri dalla scuola. Una pineta che dà sulla spiaggia. Ho tirato il freno a mano sotto i pini di mare, al buio, nella solitudine più severa. Non saprei dire quante volte ho colpito lo sterzo. So solo che, passata la rabbia, le nocche della destra erano gonfie e sanguinolente. Ma non era niente. Niente, rispetto alla stramaledetta paura che ho provato poco dopo: in qualche modo, Ludovica aveva appena raggiunto la mia auto; attendeva che levassi la chiusura centralizzata. È entrata senza dire una parola.

«Quanti anni hai? Quant’è il danno?», le ho chiesto.

Silenzio.

«Ludovica, ti prego.»

«Diciassette. Ultimo anno. Ne compirò diciotto tra qualche mese.»

Diciassette. Tutti i viscidi figli di puttana lo dicono, lo so, ma non avrei mai, mai, potuto immaginarlo. Alta, colta, matura. Parlava di letteratura russa con una competenza universitaria. Come potevo indovinare quei fottutissimi numeri anagrafici?

«Ludovica, tu sembravi… mi disp…»

«Me lo dicono tutti, sembro molto più grande dell’età che ho. Non ti devi dispiacere, Patrizio. Io non sono cieca, io sapevo: sapevo che non eri esattamente un mio coetaneo.»

Cristo. «Devi andartene, Ludovica. Vattene, ti prego.»

«Perché?»
«Perché io ho ventitré anni di più, e tu sei minorenne. È profondamente sbagliato. Un errore di merda al quale possiamo rimediare solo sparendo dalle nostre vite.»

Ho visto i suoi lineamenti indurirsi, incupirsi. «Un errore?», ha ripetuto, «credi che io passi le mie serate accalappiando uomini nei locali? Ho sentito qualcosa, l’altra sera, con te. Tra noi è successo qualcosa, Patrizio. E non puoi dirmi che non l’hai sentito anche tu. Non puoi dirmi che è stato tutto un caso, uno sbaglio nel percorso, un errore. Devi credermi, c’è stato subito qualcosa di misterioso e irresistibile, tra me e te.»

«È quello che ho percepito anch’io, ma non cambia la realtà dei fatti.»

Silenzio. Si è accorta della ferita, e senza fiatare ha preso la mano, e mi ha baciato le nocche. Il mio sangue le è finito sulle labbra. Gliel’ho levato col pollice; lei ha socchiuso gli occhi per un istante. La sua dolcezza mi straziava.

«Sono stata io a cercarti; io a volerti, sia l’altra sera che ora», ha sussurrato, intrecciando le sue dita con le mie, «non devi avere paura, non ti rinnegherò mai, davanti a nessuno, davanti a nessun problema. Cosa può accaderci, se sono io a implorarti di restare?»

Leggi anche:
Prima parte di Ludovica
Seconda parte di Ludovica
Terza parte di Ludovica
Quarta parte di Ludovica

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