Ludovica. Noir atipico. Prima parte
Racconto di Salvatore Conaci
Ti ho vista. È questo il problema. Ti ho vista, e tu hai visto me. Il resto è conseguenza. Naturale, inevitabile, fottutissima conseguenza. Sono Patrizio Rei, ispettore privato. Amo la letteratura. Odio i treni. E non dovete rompermi i coglioni. E sì, l’ho vista, dicevo. L’ho vista ieri l’altro, in quel caffè che affaccia al mare. La Calabria ne ha a bizzeffe, di locali sul mare, ma questo… questo ha le luci natalizie esterne tutto l’anno, e i burger più sporchi e saporiti della regione.
Metà settembre; un caldo d’inferno. Aspettavo un povero stronzo che pedinavo da giorni: il figlio idiota di un imprenditore; il tipico adolescente con pettinatura da imbecille e baffetto da sparviero; uno spilungone con la testa di un bambino annoiato dalla bella vita, che a un certo punto, qualche settimana fa, si è messo a spendere come un bancomat guasto.
Voglio sapere che fine fa fare a tutti questi soldi, mi aveva detto il paparino, agitato. Avevo accettato l’incarico. Di tanto in tanto fa bene concedersi un compito facile, no? Avevo visto il ragazzo prelevare a ripetizione, ed entrare in gioiellerie, profumerie, boutique ricercate. Mi era bastato poco per avere una certezza che chiunque avrebbe capito senza appostamenti: si era preso una cotta come una bastonata tra capo e collo, una di quelle che trasformano gli adolescenti in deficienti colossali.
In qualche giorno eravamo arrivati al luogo intorno al quale ruotava la frenesia amorosa del piccolo deficiente, il caffè che affaccia al mare. Il ragazzo entrava carico di sacchetti griffati, e usciva a mani vuote, sempre solo come un randagio di stazione. I sacchetti entravano, ma non li vedevo uscire neanche quando mi appostavo fuori, fino all’ora della chiusura.
Per questo motivo avevo deciso di anticipare il ragazzo, aspettandolo nel locale in serata, per capire la dinamica. E così l’ho vista, e lei ha visto me. Non doveva accadere, per la miseria. Non avremmo mai dovuto vederci. Solo così si sarebbe potuto evitare il resto. Ruotavo un bicchierino vuoto sul bancone, guardando in basso, pensando ai cazzi miei nell’attesa che arrivasse quel piccolo imbecille. Pensavo ai miei quarant’anni e una famiglia già perduta per sempre; a Vera, che non c’era più da tempo, e grazie a Dio!
Pensavo a queste cose, quando lei è arrivata. È arrivata all’improvviso. Non doveva arrivare, come io non dovevo essere là. Ma con chi cazzo dovrei prendermela? Un cameriere aveva appena messo sul bancone le patate fritte che avevo ordinato poco prima. Dai nell’occhio, se sei solo in un locale; peggio ancora se te ne stai impalato con un bicchierino vuoto, senza mangiare nulla. Siate tipici!, ci ripetevano fino allo sfinimento i nostri istruttori, sotto le armi. Ma questa è un’altra storia, perdio. Le mie patate erano appena atterrate sul bancone, dicevo, ma le ha intercettate lei.
Ci ha messo sopra le sue mani curate prima che potessi prenderle io. «Quella è l’ordinazione del signore», le ha sussurrato il proprietario, con un sorriso affabile. Lei si è girata a me in preda all’imbarazzo. Aveva un abito nero, aperto sui fianchi, corto come la vita di una farfalla; e gli occhi grandi. Grandi, dannazione. Ho sentito il cuore battermi nello stomaco, in gola, nelle tempie. Le ho detto Non fa niente, ché io avrei preso la sua ordinazione e pace così. Un’asserzione del cazzo, opaca, senza spina dorsale. Ma lei ha sorriso, e senza rispondermi nulla ha preso una patata e se l’è cacciata in bocca.