Sole e Acciaio. Yukio Mishima e il complesso dell’identità

Sole e Acciaio. Yukio Mishima e il complesso dell’identità

Recensione di Martino Ciano. In copertina: “Sole e Acciaio” di Yukio Mishima, Guanda, edizione 1982. Articolo già pubblicato su Zona di Disagio

Facciamola breve, come fa Mishima in questo libro di 94 pagine: le parole devono essere solide come il corpo, ma non come un corpo qualsiasi, bensì come quei fisici tonici, muscolosi, ben modellati dal duro allenamento. In questo modo anche l’anima si tempra e sceglierà i termini giusti per raccontare la realtà, facendo a meno dell’immaginazione.

Un corpo flaccido produrrà una letteratura sentimentale, invece uno modellato dal duro allenamento, dal sacrificio, sarà romantico; quindi saprà scrivere con impeto, forza, consapevolezza ed erotismo.

Ecco Mishima nella disperata ricerca della sua identità. Attraverso queste pagine, scritte tra il 1965 e il 1968, fa comparire già quel gesto suicida con cui griderà al Mondo la sua ribellione. Forse non ci crede neanche lui nella “favolosa” identità nipponica, di cui invece si vuole fare unico portavoce. “Sole e acciaio” sa di Futurismo e Decadentismo, di quelli che sconquassarono l’Europa tra XIX e il XX secolo, mentre il suo attaccamento al corpo, o meglio alla sua rivalutazione, è una costante invettiva contro Platone, così come fece Nietzsche.

Insomma, chi è Mishima? Forse una persona confusa? O solo un provocatore che si spinge oltre il romanzo? D’altronde lo dice proprio nelle prime righe di questo libro: non è più un ventenne e non saprebbe più scrivere lirismi poetici; ormai è cresciuto, si è formato, la guerra lo ha cambiato. Ricorda con riprovazione quei momenti in cui lui stava alla finestra a contemplare il cielo azzurro, riempiendo di irrealtà ogni cosa, mentre i soldati combattevano eroicamente.

Ci sono anche forti richiami alla tradizione giapponese, anzi c’è una forte necessità di attestare la provenienza da un passato glorioso che non ha nulla da invidiare agli altri; eppure si avvertono i dubbi inconsci di Mishima. Sono grandi come Titani proprio in quelle parti in cui la convinzione è dura come l’acciaio. Lì riconosciamo qualcosa di liquido che è tenuto insieme con artifizi da incantatore.

La mia ammirazione verso quest’opera è per lo sforzo che lo scrittore compie nel ricercare la sua identità, quell’io che coincide con l’io parlante, che ha saputo fare delle parole “un corpo educato che attraversa la realtà”. Via il sentimentalismo, il lirismo, la flaccida immaginazione che inganna con la fuga dal mondo. Le parole plasmano tutto, anche le bugie.

Grazie quindi a Mishima che ha provato a non corrompersi, ma alla fine, per non impazzire, si è dovuto ammazzare, perché addizionando le sue contraddizioni con quelle della società giapponese ne usciva fuori un’aporia; quindi, meglio morire con onore che vivere da sconfitti, lasciando a noi i dubbi. Giusto, Mishima?

 

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