Ludovica. Noir atipico. Quarta parte
Racconto e foto di Salvatore Conaci
In serata sono andato al locale che affaccia al mare. Neanche l’ombra, di lei. Neanche l’ombra del giovane figlio di papà. Ho vuotato un paio di boccali di birra, e sono rientrato. Mi ci è voluto mezzo pacchetto di sigarette prima di prendere sonno, ma poi l’alba è arrivata in un baleno, e così il pranzo lasciato a metà, e sigarette su sigarette fino al pomeriggio. Avevo un merdosissimo corso sulla sicurezza da tenere in un liceo.
Ho guidato fino alla scuola senza la minima idea di cosa fare, di cosa spiegare ai ragazzi per evitare una figura da stronzo incompetente. Il paparino mi aspettava nel cortile.
«Dica quattro cretinate sull’importanza delle regole, della sicurezza, del vivere rettamente; prenda le presenze dei ragazzi e tra una settimana riconosca due crediti extra a tutti. Ciò che davvero è importante è che capisca se mio figlio è coinvolto in qualche dinamica poco chiara qui a scuola. Entri, vada, gli studenti l’attendono già in aula magna», ha detto, quasi d’un fiato.
Ed è sparito dopo avermi stretto la mano con l’atteggiamento di un politico. Sono entrato. Ho percorso un corridoio tappezzato di foto di eventi, in cui quasi s’inciampava nelle bacheche dei premi. Quanta imbarazzante autoreferenzialità. Perché mi trovavo lì? Perché non ero là fuori a cercare Ludovica? E io che credevo di aver accettato un incarico facile.
Quell’incarico mi stava bucando lo stomaco a sorpresa, sentivo. Mi aveva cambiato la vita, ne ero certo. Sulla soglia dell’aula magna ho stretto la mano a un docente che avrebbe voluto essere ovunque, in quel momento, tranne che a una lezione sulla sicurezza urbana. L’ho sentito mio fratello: fosse dipeso da me, entrambi avremmo mandato quei ragazzi a fanculo, e ce ne saremmo andati per sempre, a inseguire le cose che desideravamo davvero.
Ludovica. Ho percorso a testa bassa il corridoio tra le poltrone colme di adolescenti starnazzanti. E quando sono arrivato alla cattedra, e ho finalmente guardato il mio pubblico, ho rischiato un mancamento, miseria ladra. Se ne stava là in prima fila. Come se fosse normale. Come se fosse giusto. Seduta, con un blocco e una penna tra le mani, aspettava l’inizio della lezione. Insieme coi suoi compagni. Cristo, avrei sanguinato di meno se in quel momento mi avessero accoltellato. Eravamo occhi negli occhi, lì davanti a tutti. Ghiacciati. «Dio santo», mi sono lasciato sfuggire.
Tutti hanno iniziato a chiacchierare. Li sentivo. Sibilavano come serpi, mentre Ludovica e io non riuscivamo a levarci gli occhi di dosso. Siamo rimasti a fissarci per un istante di troppo, ma come potevamo crederci? Come potevamo accettare di esserci trovati in quel posto, con quei ruoli? Ci serviva. Ci serviva, quel tempo per comprendere che la vita gioca con regole che non sono le nostre. «Professore, può anche sedersi, se vuole», ha sghignazzato una ragazza, da qualche parte. Professore. Non ero un professore, non mi sentivo un professore. Ero solo un uomo preso a schiaffi dagli eventi. Avevo appena perso Ludovica.
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