Ludovica. Noir atipico. Sesta parte

Ludovica. Noir atipico. Sesta parte

Racconto di Salvatore Conaci

I vetri si appannavano lentamente ma senza indugio. Sono riuscito a vedere la pineta deserta, oscura, e noi due nel cuore di quella oscurità. Insieme. Sono riuscito a visualizzarla, quella nostra nuotata in un mare di guai. E poi si è alzato un vento della malora. Un vento improvviso, violento, di quelli che a fine estate si portano via i sospiri della gente che abita sul mare. Foglie e aghi di pino hanno preso a colpire l’auto.

Le lamiere ticchettanti mi hanno riportato alla mente l’estate del duemilatré. Faceva un caldo mai visto prima. Avevo appena chiuso la mia breve carriera in un’unità speciale dell’esercito; muovevo i primi passi nel mondo dell’investigazione privata. Avevo accettato il caso di una bambina di sei anni scomparsa da quindici giorni. I suoi genitori mi avevano chiamato disperati. Abbiamo bisogno di lei, mi avevano detto, la polizia non ci sta capendo niente, e neanche ci ascolta quando proviamo a suggerire i nostri sospetti. Io li avevo ascoltati, quei loro dubbi, quei loro sospetti: mi avevano portato nei pressi della zona industriale di Torino, in una macchia a ridosso di una pozzanghera melmosa che qualche residente addirittura chiamava il lago.

La bambina era stata presa da uno psicopatico figlio di troia che all’apparenza era un loro normale vicino di casa, ma che la teneva legata e imbavagliata in una baracca tra gli alberi. Usciva solo di notte, per portarle da mangiare; poi le rimetteva il bavaglio e rientrava in città, il verme. Una notte l’avevo intercettato e seguito fino al boschetto.

Quando lo stronzo aveva visto la mia auto avvicinarsi alla baracca, aveva iniziato a spararmi addosso. Avrei dovuto fare inversione e cercare il supporto delle forze dell’ordine, ma percepivo di aver passato un limite troppo pericoloso: il rapitore era armato e aveva percepito la minaccia. Finché sparava alla mia auto, avevo la certezza che non se la prendesse con la bambina. Non c’era altra via che agire, e lo avevo fatto. Ma questa è un’altra storia, maledizione. Ora non c’era alcun matto armato. Ora il vento scagliava sulla mia auto cellule morte di sottobosco, e io ero intrappolato tra la necessità di scappare da Ludovica e il desiderio bruciante di farla mia per sempre.

«Allora? Cosa può accaderci, se sono io a implorarti di restare?», ha insistito.
«Diavolo, non so che risponderti. Nulla, non accade nulla se siamo dalla stessa parte; ma non credere che sarà facile. Non avremo un cane, dalla nostra parte. La tua famiglia farà di tutto per opporsi. Sarà un macello, Ludovica. Un macello. E poi c’è questa storia dei crediti scolastici. Ti complicherò la vita, quando invece potresti viverti il tuo ultimo anno di liceo in serenità, libera di scegliere se stare sola o accogliere nella tua vita una persona della tua età, con gli stessi obiettivi, gli stessi percorsi.»
«Stai elencando solo i problemi. Innanzitutto non conosci la mia famiglia: non getterebbero i coriandoli al nostro passaggio, forse, ma non si spingerebbero mai a farci la guerra. Inoltre posso decidere da sola cos’è una complicazione per la mia vita, e posso decidere da sola cosa voglio. Non voglio un mio coetaneo, voglio qualcuno che mi piaccia, che mi stimoli, che mi faccia felice. E quel qualcuno sei tu. Più ripenso al nostro incontro, più vedo elementi che si sono accavallati e sommati per spingerci l’una verso l’altro. C’è più di un motivo, se ci siamo incontrati. Più di uno.»
«Parlamene.»
«Quando sarà il momento. Rivediamoci domani, Patrizio. Domani, e poi dopodomani, e poi ancora. Resta con me, e troverò il momento per parlartene.»

Non ho avuto la forza di scappare da lei. Ci siamo scambiati i numeri, li abbiamo salvati con le nostre iniziali e con la promessa di rivederci il giorno dopo. Se n’è andata che fuori era buio pesto, e il vento la percuoteva come se fosse una cazzo di cosa personale.

Leggi anche:
Prima parte di Ludovica
Seconda parte di Ludovica
Terza parte di Ludovica
Quarta parte di Ludovica
Quinta parte di Ludovica

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