Diario di una prof. “Una questione da Pitbull”
Testo ed elaborazione grafica della foto di Daniela Grandinetti
Se ascolti, impari (la realtà).
Sono le dodici e mezza, lezione in seconda, faccio appena in tempo ad accordare cinque minuti, cinque di pausa, che scatta la mossa automatica: tutti afferrano il cellulare. Faccio notare il livello di dipendenza patologica, ma ovviamente rimango pressoché inascoltata, mi rassegno a questi cinque minuti di spippolamento compulsivo.
V. – un ragazzino minuto che sembra più piccolo della sua età – si avvicina alla cattedra. Qualcuno fa una battutaccia ad alta voce a proposito dei cani randagi, dice andrebbero uccisi. Non commento, ma tanto basta perché V. prenda a raccontarmi del suo pitbull, mi dice che il cane gli addentava l’avambraccio senza morderlo e lui lo sollevava e lo faceva penzolare. Io guardo scettica i suoi quaranta chili scarsi e sorrido. Fa il grosso, ma proprio non ha la stazza del grosso.
Si siede e mi dice che questo pitbull adesso è morto, pare fosse un cane da combattimento e lui lo allenava.
“Tu?”. Chiedo incredula.
“Sì, per le gare”
“Ma le gare tra cani sono illegali”
“Qui, ma in Bulgaria no. È legale, anzi, ci vanno pure i poliziotti. Mio zio lì ha un allevamento di cani, si possono vincere fino a 5000 euro in un combattimento.”
“Scusa, ma a te piace guardare due cani che si ammazzano?”
Fa spallucce, si vede che non vuole ammetterlo apertamente ma sì, gli piace. Mi racconta di cani eroici, insanguinati e con arti strappati che dopo aver vinto un combattimento vengono rimessi in pista a combattere ancora. L’adrenalina sale (la sua) mentre parla gesticolando mentre io ho lo stomaco (e i pensieri) sottosopra.
“Ma è terribile!”, esclamo.
“Sì, ma lo fanno.”
“Torni spesso in Bulgaria?”
“Ogni estate, i miei sono separati, per le vacanze vado da mio padre.”
Mi racconta che gli piace andare in motorino, ma non ha il patentino e in Bulgaria nella sua città i poliziotti lo hanno beccato, ma lì – dice – basta pagare.
“La multa?”, azzardo io, ottimista.
“Ma quale multa prof! I poliziotti! Mio padre gli dà 50, 100 euro e loro mi lasciano andare.”
Andiamo bene!
Intanto i cinque minuti sono passati e io mi sono fatta una cultura sul combattimento tra cani.
Chiedo di mettere via i cellulari, dedichiamo gli ultimi venti minuti alla lettura del romanzo su Oscar. Protestano un po’, soprattutto A., nella penultima fila, aria da finto bullo ma buono come il pane.
Comincio a leggere.
Tanto lo so che sarà proprio lui, A. finto bullo, succede quasi sempre, mi segue con lo sguardo, la bocca semiaperta e lo sguardo lucido. D’altronde ormai è chiaro che Oscar, il bambino protagonista della storia, morirà. Nel gioco dei dodici giorni è invecchiato. Non ringrazierò mai abbastanza Eric-Emmanuel Schmitt per aver scritto questo romanzo,
Oscar e la dama rosa. Leggendolo ho fatto piangere anche i più recalcitranti, di proposito.
Quando suona la campanella c’è un silenzio imbarazzato. In fondo molti di loro sono maschi duri.
Qualche giorno dopo, nell’introdurre un modulo sul loro libro dedicato a scritti sulla mafia, chiedo cosa ne sappiano. Proprio V., quello dei pitbull, risponde subito: sono dei furbi, dei grandi. Chiedo spiegazioni, ma ovviamente non sa bene cosa rispondere, è confuso. Eccetto, dice, che a lui l’idea piace perché lui da grande vorrebbe fare il criminale. Proprio così mi dice.
“Io vorrei fare il criminale.”
V. da qualche giorno si è tagliato i capelli: un taglio rasato con una striscia più lunga nel mezzo. Sulla nuca il rasoio gli ha disegnato uno strano, indecifrabile segno.
Tra l’altro, a lui così piccolo, quel taglio sta proprio male, oltre ad essere oggettivamente un brutto modo di ridursi la testa, ma questo non posso dirglielo.
Dovrò farglielo capire in un altro modo. Così come smontargli la sua visione mitica dei criminali. Averlo fatto piangere con la morte di Oscar, nel suo caso, non basta.