“Non sono morti gli dei”. Konstantinos Kavafis e ciò che resta del mito

“Non sono morti gli dei”. Konstantinos Kavafis e ciò che resta del mito

Recensione e foto di Martino Ciano

La sua creatività la evocava in una casa in cui faceva entrare pochissima luce, rimuginando su quelle potenze del passato che richiamava in vita attraverso le sue poesie: il mondo greco-romano, bizantino, poi perdutamente cristiano. Alessandria d’Egitto fu la sua patria, anzi la sua prigione. Scelse quella pratica di “segregazione” volontariamente, forse in questo modo era in grado di aprirsi una finestra sull’infinito per spiccare il volo e per viaggiare sulle ali dell’intuizione.

Kavafis è senso della storia e della memoria. Nei suoi componimenti c’è il potere ancestrale degli dei greci, di una cultura che il cristianesimo ha provato a spazzare via, ma nessuna divinità muore davvero se ancora qualcuno la venera. Ecco, lui ne venerò molte, in loro cercava le sue radici spirituali e la sua poetica. Era la Grecia antica la sua Itaca, quella che, come diceva lui, si augurava di raggiungere dopo mille peripezie e altrettanti incontri.

Cosa ha incontrato Kavafis? Forse la sua anima, la sua essenza che non mostrava al di fuori delle mura della sua abitazione. Nella penombra delle stanze della sua casa, egli rievocava fasti e macerie, conquiste e distruzione, la storia e le sue tracce, la memoria e il suo carico di dolore.

In vita non fu riconosciuto per il suo lavoro, anzi era perlopiù ignorato; oggi è considerato il più grande poeta della Grecia moderna. Lui è stato inventore di uno stile che oggi si traduce in versi nostalgici, con parole che sono parte di una dura testimonianza e le quali riportano a quei secoli di sensualità e di passione, di guerra e di morte, ma in cui tutto era governato da un senso non sempre svelato, eppure necessario.

Inutile aggiungere altro sulla poesia di Kavafis, diremmo solo cose già dette, già spiegate, note. Leggendo questa antologia mi sono lasciato trasportare tra la storia e il mito che a noi tutti appartengono. Kavafis non parla di un tempo migliore, ma di un qualcosa nel quale si riconosce, in quanto affine alla sua identità e al suo gusto estetico ed etico.

Qualcosa di cui sia noi che lui siamo stati privati.

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