La vita tramandata

La vita tramandata

Racconto e foto di Martino Ciano

Quando entravo nella casa senza porte e finestre, per attendere te nel rudere radicato nella brulla campagna e in cui era sempre autunno, mi spogliavo anche del nome perché, tra quelle mura, di nulla potevo restare proprietario. Sedevo su una sedia di paglia rosicchiata dai topi, fissavo le travi di legno del tetto eroso dall’umidità, respiravo l’acida fragranza di resti anonimi: cumuli in cui oggetti, liquami, polvere e muschi si abbracciavano.

Sentivo di abitare sulla soglia della fine del mondo e, per attendere il tuo arrivo, guardavo la foto in bianco e nero di un bambino di pochi mesi, vestito come un gioiello in esposizione, riposto in una culla come un lingotto d’oro. Immobile, troppo immobile; inumano, troppo inumano. Mi appariva così in quella diapositiva del secolo scorso, in cui si addensava la nostalgia di una vita decomposta, che magari proprio su quel pavimento trasformato in una latrina da creature notturne con sembianze umane e animali aveva posto, fiducioso, le sue gambe.

E da quanti anni quella casa era stata violata? E chi l’aveva custodita? E chi la custodisce oggi nei ricordi? Lei, che resisteva nel mezzo di un terreno abbandonato all’avidità dei rovi, si affacciava sulla superstrada su cui scorrevano auto e camion imbizzarriti, risucchiati dal tempo e dallo spazio. Trovai lì quella foto, ai piedi della sedia di paglia sulla quale sedevo per attenderti, dopo aver eliminato dalla memoria il mio nome, dopo aver spogliato me di ogni me stesso, fino all’ultima maschera. E quando andavo via, dopo il nostro incontro, rimettevo sempre in quel punto la diapositiva.

Quel pezzo di pavimento era per me tomba e altare, perché lì lasciavo riposare quell’immagine e i miei punti interrogativi, lì seppellivo un segreto. Tu non ne sapevi nulla, perché durante il nostro incontro infilavo la foto in tasca per nasconderla alla tua curiosità, perché sapevo che tu avresti tradotto me in quello spazio e avresti incastrato me in quel corpo e avresti derubato me di un segreto. Dopotutto, mi avevi già strappato l’anima e il nome, perciò conservavo per me una via di fuga verso la fantasia.

Poi un giorno ci siamo dati appuntamento, arrivai nella nostra casa delle dimenticanze, ma tu eri lì prima di me. Per la prima volta da quando avevamo eletto quel luogo a “nostro rifugio”, tu attendevi me. Ti chiamai per nome, ma non hai risposto, come me ti eri spogliata di tutto. La foto non c’era più, ti chiesi se avessi trovato qualcosa, sicuro ormai di essere stato scoperto. Tu la tirasti fuori dalla tasca, dalla stessa in cui la custodivo io durante il nostro incontro.

E ridesti, mi abbracciasti; non eri arrabbiata, ma serena perché tuo era quel bambino, come quelli che forse avresti avuto, che avevi desiderato, che avresti abortito. Nostri erano i segreti della vita tramandata e di quella vissuta nei sogni.

Hai strappato la foto davanti al mio stupore, mi hai preso per mano e siamo usciti dalla casa senza porte e finestre con passo lento. Adagio ci siamo avvicinati a un pozzo, ci saremmo tuffati insieme, per rinascere. Fu allora che vedemmo per l’ultima volta la casa, così simile a quella dei nostri padri.

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