Memorie di Kabiru Mohammed. Storia comune di un richiedente asilo

Memorie di Kabiru Mohammed. Storia comune di un richiedente asilo

Racconto e quadro della foto di Achille Benvenuto

Mi chiamo Kabiru Mohammed. Nacqui a Kumasi, in Ghana, il primo gennaio 1988. Mio padre: Kabiru Mohammed Jaja. Mia madre: Hawa Mohammed. Ho una sorella. Sono musulmano e appartengo, perciò, ad una minoranza religiosa del paese (circa il 15%).

Sono andato a scuola per sei anni; successivamente ho frequentato la scuola coranica per altri sei. Unico alfabetizzato della famiglia (mio padre non voleva che lavorassi). Parlo la lingua Haussa (lingua franca della minoranza musulmana in Ghana), l’inglese e l’arabo. In Ghana ho lavorato a lungo come tecnico per i sistemi di refrigerazione (aria condizionata, sistemi di ventilazione, apparecchi refrigeranti vari). Non sono sposato. Non ho figli.

Nel 1995 ho perso mio padre, commerciante, per un incidente stradale. Subito dopo mio zio prese possesso di tutte le nostre proprietà poiché io, non ancora venticinquenne, secondo la tradizione afro-musulmana non potevo ereditare (in caso di decesso del padre, compiuti i venticinque anni, il primo figlio maschio eredita tutti i beni della famiglia).

Mio padre possedeva molte proprietà immobiliari, una delle quali la intestò a me. Nonostante ciò, dopo la sua morte, mio zio amministrò il patrimonio senza prendersi cura in nessun modo di me e senza donarmi neanche in minima parte i frutti degli affitti degli immobili. Vivevo con mia madre e mia sorella in una piccola casa.

Mia madre si ammalò di una forma grave di diabete e finì in ospedale. Al suo ritorno, le proposi di parlare con il nostro capo imam che viveva a Kumasi. Lei acconsentì e quando spiegai all’imam l’ingiustizia subita, questi, in qualità di mediatore, mi accompagnò da mio zio per cercare di risolvere la questione.

Mio zio mi accusò di essere un bugiardo ma l’imam, che conosceva bene la storia, gli spiegò che la sua non era una buona condotta per un musulmano e gli diede un mese di tempo per restituirmi tutte le carte delle proprietà di mio padre. Avevo bisogno di soldi per mantenere e curare mia madre e mia sorella e per continuare i miei studi. Avrei voluto anche investire nell’attività lavorativa che avevo appena iniziato.

Passò un mese. Tornai dall’imam e insieme ci recammo a casa di mio zio. Lo trovammo molto malato. L’imam, allora, mi pregò di concedergli ancora un po’ di tempo. Ma la settimana seguente mio zio morì. Aveva cinque figli maschi. Andai a parlare con il primogenito per spiegargli la situazione. Lui affermò che nelle carte delle proprietà non figurava il mio nome (mio zio, illecitamente, prima di morire aveva contraffatto i documenti mettendo, al posto del mio, il nome di suo figlio).

Tornai così da lui accompagnato dall’imam, che prese tutta la documentazione consigliandomi di portarla ai giudici. Avevo molti testimoni e amici di mio padre dalla mia parte. I giudici convocarono più volte le parti, ma mio cugino non si presentò. Per la legge del Ghana ciò, di solito, era un problema ma in questo caso capii che c’era qualcosa sotto perché il giudice preposto non prendeva alcun provvedimento a seguito dell’assenza di mio cugino alle udienze.

Mia madre e mia sorella erano molto preoccupate; anch’io lo ero. La notte prima dell’ultima udienza (30 dicembre 2009) fui avvisato telefonicamente dal più piccolo dei miei cugini (un bambino molto legato alla mia famiglia e in particolare a mia madre che lo aveva praticamente cresciuto) circa l’intenzione del fratello maggiore di raggiungermi nella notte per farmi del male.

Quella notte la trascorsi a casa di un amico. La mattina seguente, tornato a casa, trovai la serratura della porta forzata. Mi presentai molto agitato all’udienza definitiva, supportato da amici e testimoni, nonché dal capo imam.

Il giudice decretò che la proprietà era da suddividere tra la mia famiglia e quella di mio zio. Intervennero allora, a mio favore, molti testimoni; anche l’imam disse che la proprietà era completamente di mio padre e non vi era alcun motivo per compiere una suddivisione. Ma il giudice ribadì che per la legge la mia famiglia doveva dividersi le proprietà e vivere in pace insieme ai miei cugini.

Sapevo che la convivenza sarebbe stata impossibile e tantomeno un accordo; inoltre, temevo per la mia incolumità. Anche mia madre e l’imam pensavano che la situazione fosse troppo rischiosa per la sopravvivenza mia e della mia famiglia. Sicuramente mio cugino e i suoi fratelli mi avrebbero ucciso. L’imam decise che mia madre e mia sorella si sarebbero trasferite per vivere vicino a lui, che le avrebbe protette; a me consigliò di scappare.

Avevo un amico che si era trasferito in Libia: lo chiamai e decisi di raggiungerlo. Così, lasciando tutto, partii il due gennaio 2010. Non avevo mai viaggiato prima. Con un’auto arrivai in Libia, attraversando il Burkina Faso e il Niger. Era il sei marzo 2010. Avevo tutti i documenti regolari. A Tripoli il mio amico mi aiutò a cercare casa.

Trovai lavoro presso un negozio gestito da un nigeriano che commerciava prodotti legati alla refrigerazione. Ero soddisfatto di un lavoro regolare e simile a quello lasciato nel mio paese. Ero pagato settimanalmente. Vivevo in un appartamento con altri connazionali conosciuti in loco. Nel febbraio del 2011 cominciarono i bombardamenti: impossibile lavorare; stavamo a casa perché uscire era davvero pericoloso.

La mattina del tre giugno 2011 stavo andando al supermercato quando vidi una pattuglia della polizia avvicinarsi. Ero tranquillo perché avevo con me tutti i documenti. Mi fermarono chiedendomi di dove fossi: mostrai loro il passaporto e il libretto di lavoro regolare. Nonostante ciò, mi fecero salire su un furgone all’interno del quale mi aspettavano due poliziotti che mi perquisirono. Presero tutto quello che avevo: il cellulare e trecento dinari.

Vedendo che non mi restituivano neanche i documenti, osai chiedere spiegazioni. Per tutta risposta mi presero a calci. Poi mi raccolsero da terra e mi portarono in un luogo dove c’erano tanti uomini neri come me. Alcuni di loro mi dissero che erano trattenuti lì da due settimane senza cibo e acqua. Patii anch’io la fame e la sete e come loro fui spesso violentemente picchiato. La notte tra il venti e il ventuno giugno ci trasportarono al porto, per essere poi stipati come animali in una barca.

Era il ventuno giugno 2011: verso sera la barca lasciò la costa libica. Nella notte del giorno seguente arrivammo a Lampedusa stremati perché non mangiavamo e non bevevamo da giorni.

Non conosco nessuno in Italia, nessuno in Europa. Non avrei mai immaginato che la situazione in Libia diventasse così violenta e pericolosa. Sono stato costretto alla migrazione in Italia con la forza e con la violenza. Vorrei restarvi: non considero la Libia il mio paese, ma solo un luogo dove poter lavorare. Ora lavoro non c’è più, c’è la guerra.

Vorrei poter avere una posizione regolare in Italia per provvedere al sostentamento e alle cure di mia madre, che nel frattempo è peggiorata per il decorso della sua malattia. La mia patria è il Ghana, ma se vi tornassi rischierei sicuramente la vita e metterei in pericolo anche mia madre e mia sorella. Non avrei scampo.

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