La Legge di Lidia Poët

La Legge di Lidia Poët

Articolo di Letizia Falzone. In Copertina: un particolare della “Placca commemorativa di Lidia Poët”;  Foto di Betty&Giò, CC BY-SA 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0) via Wikimedia Commons

Lidia, laureata in giurisprudenza ed abilitata alla professione forense, trova lavoro nello studio legale del fratello Enrico come avvocata. Un ruolo rivoluzionario per l’epoca che getta scandalo nell’ambiente. Poët dovrà infatti vedersela con una sentenza della Corte d’Appello di Torino che dichiara illegittima la sua iscrizione all’albo degli avvocati, impedendole di esercitare la professione solo perché donna. Imperterrita, Lidia combatterà con le unghie e con i denti questa situazione, preparando ricorso per ribaltare le conclusioni della Corte. Nel frattempo, assiste i clienti dello studio dimostrandosi non solo assolutamente capace di svolgere il suo mestiere, ma anche in grado di guardare oltre il suo tempo. In tutte le cause riuscirà a cercare la verità dietro i pregiudizi e le apparenze, sempre supportata dal fratello della cognata – Jacopo – che la guiderà nei mondi nascosti della città condividendo tutte le informazioni in suo possesso.

Grande successo sta riscuotendo la serie in sei episodi su Netflix “La legge di Lidia Poët”, la storia romanzata della prima donna avvocato in Italia, interpretata da Matilde De Angelis. Sicuramente nella serie ci sono molti elementi di fantasia, e la protagonista è tratteggiata come una donna emancipata e libera, dedita al turpiloquio e con una vita sentimentale molto disinvolta. Ma la storia che ha ispirato la fiction è vera.

Lidia Poët nasce in val Germanasca in un’agiata famiglia valdese. Studiò per diventare maestra, una delle poche professioni concesse alle donne nell’Ottocento, ma il suo sogno era un altro. Dopo la morte del padre conseguì la licenza liceale e si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza di Torino. Davanti a un’immensa folla plaudente, si laurea, dopo aver discusso una tesi sulla condizione femminile nella società e sul diritto di voto per le donne. Ha ventisei anni, intelligenza e coraggio da vendere ed è determinata ad arrivare dove nessun’altra era ancora mai riuscita: diventare avvocata.

Svolto il praticantato, supera in modo brillante, con il voto di 45/50, l’esame di abilitazione alla professione forense e chiede l’iscrizione all’Ordine degli Avvocati e Procuratori di Torino. Qualcuno nel Consiglio dell’Ordine storce il naso, ma la maggioranza la sostiene. Ce l’ha fatta, è lei la prima avvocata d’Italia.

Ma la conquista sarà effimera: il Procuratore del Re impugna l’iscrizione davanti alla Corte d’appello di Torino, che dichiara che le donne non possono esercitare l’avvocatura. Lidia si prepara al ricorso in Cassazione, mentre l’intero Regno attende col fiato sospeso la sentenza definitiva. Tutti i giornali, i giuristi, le femministe, i politici durante quei mesi non parlano d’altro: chi è a favore, chi è contro, chi precorre i tempi e chi rimane ancorato al passato. Ne emerge una polifonia di voci, l’affresco di un’epoca fervida e contraddittoria e, soprattutto, il ritratto di una donna straordinaria, che con la sua tenacia e il suo ingegno ha dischiuso la strada a tutte le colleghe del futuro.

L’undici novembre 1883 la Corte di Appello accolse la richiesta del procuratore e ordinò la cancellazione dall’albo. Malgrado il ricorso di Lidia, la sentenza fu confermata l’anno successivo. Le ragioni addotte dagli oppositori alla carriera delle donne in avvocatura furono essenzialmente di due tipi: una di carattere medico, l’altra di carattere giuridico. Dal punto di vista medico si sosteneva l’idea che le donne, a causa del ciclo mestruale non avrebbero avuto, almeno per circa una settimana al mese, la giusta serenità. La seconda obiezione era di carattere giuridico. Le donne all’epoca, non godevano della parità di diritti con gli uomini. Non potevano essere testi per processi dello Stato Civile o testimoni per un testamento.

Inoltre esse erano sottoposte alla volontà del marito che dovevano seguire in ogni suo minimo spostamento e cambiamento di domicilio. Per questo permettere alle donne di svolgere attività d’avvocato sarebbe stato lesivo per i clienti perché si sarebbe dato loro “un patrono” privo di tutte le facoltà giuridiche. Tra le motivazioni anche l’inadeguatezza del carattere delle donne a un tale ruolo, la conferma che le donne dovevano dedicarsi ad altro, ovvero la famiglia e i figli, e anche un riferimento al bizzarro abbigliamento femminile che mal si conciliava con l’austerità della toga.

Leggere le motivazioni di quelle sentenze a distanza di oltre un secolo fa riflettere sulla condizione della donna in una società, all’epoca, maschilista che vedeva la figura femminile relegata al ruolo di moglie e madre e sui diritti che, con fatica e tenacia, le donne stesse hanno conquistato fino ad arrivare ai giorni d’oggi quando, tuttavia, si sente ancora parlare di “gender pay gap”, di discriminazione, di diseguaglianza nei diritti.

Solo nel 1920 Lidia Poët, all’età di 65 anni, entrò finalmente nell’Ordine degli avvocati, divenendo ufficialmente la prima donna d’Italia ad esservi ammessa.

Ricordare e raccontare la sua storia, in occasione della Giornata Internazionale della Donna, è un tributo ad una donna che, mossa dalla passione per il proprio lavoro e dalla determinazione nel raggiungere i propri obiettivi, ha saputo sfidare un mondo che, all’epoca, era esclusivamente maschile aprendo la strada al riconoscimento per le donne, di diritti che, un tempo neanche troppo remoto, erano di esclusiva titolarità dell’uomo e da cui le donne erano escluse in quanto donne.

Oggi, in Italia, le donne avvocato sono il 48% con un costante aumento negli ultimi anni.

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