Cesare Pavese e l’invisibile sofferenza

Cesare Pavese e l’invisibile sofferenza

Racconto e foto di Giuseppe Gervasi

Uno sguardo veloce su Facebook mi distrae dalla scrittura. Vedo una foto di Cesare Pavese. È seduto su una panca di legno con una gamba distesa verso terra e l’altra piegata sulla panchina. La solita eleganza: il vestito, il cardigan che racchiude camicia e cravatta, la sciarpa.

Una foto in bianco e nero, che esalta un mezzo sorriso, la proverbiale malinconia e lo sguardo sospeso in basso. Credo di scorgere una sigaretta nelle dita della mano destra, mentre la sinistra stringe un po’ sopra la caviglia tra il pantalone e una calza scura.

Il post pubblicato riporta un suo pensiero: “L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, a ogni istante. Quando manca questo senso – prigione, malattia, abitudine, stupidità, – si vorrebbe morire.”

Il suo pensiero stravolge le mie certezze, ma al tempo stesso traccia i contorni e i riflessi della sofferenza invisibile. Una prigione con la porta socchiusa che ti invita ad uscire: vorresti, ma non hai le forze. L’abitudine a vivere giorni sempre uguali, che all’improvviso si trasforma in rassegnazione e speri che ritorni la speranza.

E poi devi fare i conti con la stupidità, nemica del silenzio e della riflessione. Si vorrebbe morire, diceva Cesare Pavese: per lui non era una semplice frase, ma il preludio a ciò che sarebbe accaduto il 27 agosto del 1950, nella stanza 346 dell’hotel Roma in piazza Carlo Felice a Torino. In quella stanza il tempo si è fermato a 70 anni fa: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”.

L’ultimo messaggio dello scrittore non lascia alcun dubbio sul suo essere un uomo tormentato, solo, che chiede perdono e che perdona, riuscendo a ironizzare sul pettegolezzo che avrebbe scatenato il suo terribile gesto suicida. Cesare Pavese non ha mai assunto un atteggiamento di indifferente distacco nei riguardi della società e dei mali del suo tempo.

Purtroppo non è riuscito a sconfiggere quella visione nera e senza alcuna via d’uscita dalla vita che stava vivendo e che lo stava lentamente uccidendo senza volerlo. È l’obiettivo della sofferenza invisibile: uccidere lentamente. Riusciremo a rendere visibile la sofferenza in un mondo spesso distratto e cieco?

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