Un fare comune. Giuseppe Muraca e le riviste italiane del secondo Novecento
Recensione di Luciana De Palma. In copertina: “Un fare comune Da «Politecnico» a «Diario» Riviste italiane del secondo Novecento” di Giuseppe Muraca, Il Convivio, 2024
Giuseppe Muraca ha pubblicato “Un fare comune. Da «Politecnico» a «Diario». Riviste italiane del secondo Novecento”, un libro di grande spessore intellettuale nelle cui pagine l’autore ha preso in esame alcune riviste letterarie che hanno accompagnato l’evoluzione culturale dell’Italia. La sua scelta è stata dettata, come egli stesso scrive nella prefazione, dai propri interessi letterari e politici.
Questo gli ha consentito di approfondire la trattazione non solo di ciò che riguarda le riviste in sé, ma anche una serie di implicazioni di carattere filosofico, sociale, economico e politico i cui sviluppi hanno consentito al necessario divenire storico di farsi materia viva, attiva e pulsante.
De Il Politecnico, prima rivista ad essere esaminata, Muraca scrive: “L’idea del «Politecnico» nacque e si definì a Milano intorno al ’43, cioè nel clima della Resistenza, e il progetto fu realizzato sulla base di una convergenza di interessi del PCI, della casa editrice Einaudi – che tendevano ad allargare sempre di più la loro sfera d’influenza – e dello scrittore Vittorini, che durante la clandestinità era entrato in contatto con alcune importanti personalità della cultura e dello schieramento politico antifascista (E. Curiel, G. Pintor, G. Labò, A. Banfi) partecipando direttamente ad iniziative politico-culturali dopo aver aderito alle posizioni del Partito comunista”.
Il clima di speranza e di fiducia fu terreno fertile per la cultura che divenne promotrice di cambiamenti di ordine sociale: bisognava scardinare tutta la rozzezza morale e culturale prodotta dal fascismo e affrontare l’immane disastro lasciato dal ventennio.
Agli intellettuali fu richiesta un’intensa partecipazione alla ricostruzione di una nazione che era stata scossa dalle fondamenta; il richiamo di Vittorini non restò inascoltato e tantissimi scrittori diedero il loro contributo alla causa del responsabilità civile.
Questo fece sì che Il Politecnico fosse riconosciuto come il primo degli esperimenti di pregio di una classe intellettuale che non poté accontentarsi di intingere il pennino nell’inchiostro simpatico e scrivere nel vento. Al contrario, si rese necessario incidere con inchiostro nero e pesante sui fogli che la Storia avrebbe conservato affinché tutti sapessero e ricordassero.
L’analisi delle riviste prosegue con lo stesso appassionato impegno, passando da Discussioni a Ragionamenti, da Officina a Il Menabò, da Il Verri a Quindici: per ognuna sono definite in modo profondo e interessante le tematiche affrontate, le interpretazioni date dagli scrittori interpellati alle principali questioni che intanto si erano affacciate su un nuovo scenario politico.
Arrivando, poi, negli anni Sessanta, Giuseppe Muraca scrive delle riviste nate e diffuse in questo periodo: “Tutte le riviste della nuova sinistra furono infatti prodotte e autogestite dai principali animatori e questo permise loro una quasi totale indipendenza dal contesto politico e culturale, diventando col tempo dei punti di riferimento per un pubblico sempre più ampio di intellettuali e militanti collocati a sinistra delle organizzazioni tradizionali del movimento operaio”.
Il suo studio si concentra intorno a Rendiconti, Quaderni piacentini, Giovane critica, Nuovo impegno, Ombre rosse nelle cui pieghe strutturali entra con linguaggio curato, semplice e chiaro.
Molto interessante è anche un’intervista fatta ad Antonio Lombardi della direzione di Giovane critica che permette al lettore di entrare nel vivo della costruzione di un impianto intellettuale di grande respiro e allo stesso tempo di forte impegno. Non mancano pagine dedicate a quell’universo in espansione che coinvolse i giovani desiderosi di abbandonare le strade dei genitori per tentare nuove scoperte al di là di frontiere mai raggiunte prima.
Così Muraca scrive: “Tra le riviste giovanili degli anni Sessanta un posto particolare spetta a «Mondo beat», e per diversi motivi. Con la diffusione della letteratura e della musica beat, anche in Italia nasce il fenomeno dei capelloni di strada, in rotta con la società dei consumi, con il potere, lo stato, la famiglia, ecc. osteggiati e derisi dai benpensanti, perseguitati dalla stragrande maggioranza dei giornali e dalla TV, dalle forze dell’ordine. La seconda guerra mondiale era ormai un lontano ricordo e una nuova generazione di giovani ambiva a diventare protagonista della vita politica e sociale, sforzandosi di rompere quella pesante coltre di autoritarismo e di conformismo, di ipocrisie e di tabù che dominava ancora la società civile”.
Dopo pagine dedicate a Salvo imprevisti, Alfabeta, Linea d’ombra e Diario, nell’ultima sezione leggiamo quanto la poetessa Gabriela Fantato ha scritto circa le riviste femministe.
In Un pensiero eretico: le riviste del femminismo italiano degli anni Settanta così scrive: “Negli anni Settanta, nacquero e si animarono alcune delle storiche riviste del femminismo italiano ed europeo, nacquero all’interno del generale ripensamento di canoni e categorie del pensiero occidentale, ma anche in relazione alle nuove sperimentazioni sociali e artistico-letterarie che caratterizzarono quel periodo, agitato dalle richieste e dalle nuove proposte dei movimenti politico-sociali in atto tra lavoratori e lavoratrici, tra studenti e studentesse”.
Al lavoro di Giuseppe Muraca va il merito di aver salvato dall’oblio una considerevole porzione di storia della cultura italiana: senza studiosi seri e colti non esiste progresso del pensiero e senza quest’ultimo non può esserci alcun vero progresso umano.