Se camminare fa troppo rumore. Giusi D’Urso e la dimestichezza con il dolore
Recensione di Martino Ciano. In copertina: “Se camminare fa troppo rumore” di Giusi D’Urso, Il ramo e la foglia Edizioni, 2024
“Ci vuole coraggio per vivere a Pisa”, dice Sofia, protagonista di questo romanzo. Non ha trovato pace in questa città fin dal primo giorno in cui vi ha messo piede, nel 1983, insieme alla mamma e al papà. Quasi stavano riuscendo a costruirsi un futuro migliore in Toscana; infatti, per loro, migrati dalla Sicilia, avere più di niente era importante. Ma poi l’incanto si è spezzato.
Nasce così il racconto intimo di Giusi D’Urso, autrice di un’opera per cuori forti e che cattura, anzi ammalia, grazie al suo stile che sa essere delicato e crudele. La scrittrice pisana sa osare ma, soprattutto, sa quando è necessario far riprendere fiato al lettore. Per quanto tutto si svolga in un’atmosfera che, almeno per me, appare claustrofobica, ci sono momenti ariosi grazie ai quali si può riflettere su quanto appreso durante il racconto.
Sofia è una ragazza divisa tra un padre laborioso ma padrone, che non le lascia troppa libertà d’azione; e una madre remissiva, che accetta e accorda le volontà del marito. Lui comanda e punisce, loro due devono obbedire e subire. Condizione che Sofia non digerisce; nonostante tutto, la sua reazione sarà timida.
L’unico filo che la tiene in contatto con la Sicilia, terra verso la quale prova amore e odio, è l’amica d’infanzia Filomena, anche lei purtroppo sottomessa alle regole patriarcali. Questa “relazione” a distanza, fatta delle lettere sgrammaticate di Filomena e dalle risposte di circostanza di Sofia, dura poco; infatti, imprevisti e colpi di scena ci metteranno lo zampino. Ciò che però resta immutato, è il clima di oppressione che sovrasta queste pagine, le quali rendono Sofia tanto lottatrice quanto arrendevole.
Ecco quindi un romanzo in cui amore e odio si bilanciano, in cui le sfaccettature dell’essere umano si mostrano per intero senza omettere nessuna gradazione. D’Urso non raccontato solo, ma denuncia. Attraverso la sua Sofia ci imbattiamo in una storia antica, che ancora resiste e che suscita in noi le giuste reazioni.
Commuove la solitudine di tutti e tre i componenti di questa famiglia, perché non è solo Sofia a soffrire, ma anche il padre e la madre. Non è questa la solita storia sul retrogrado padre padrone siciliano che emigra per questioni di lavoro, senza badare all’emancipazione spirituale sua e dei suoi cari. No, tutto appare come una coazione a ripetere, una necessità di impiantare vecchie radici in un terreno nuovo. una misteriosa lotta tra coloro che sono emigrati e gli autoctoni che hanno paura dello straniero.
Sofia pure, in alcuni momenti, si trasforma in un aguzzino. Lo fa proprio nei confronti della sua amica Filomena, rimasta in Sicilia. È come se per sfuggire al padre, lei sia pronta ad autodistruggersi. Ed è questo elemento che caratterizza l’intero romanzo, ossia essere finalmente davanti a un personaggio che non è solo vittima, ma anche persona assimilata da circostanze più grandi nel mezzo di una guerra che lei stessa ha dichiarato.
Cos’altro possiamo aggiungere se non questo: siamo in presenza di un romanzo che non merita solo di essere letto, ma sul quale bisogna meditare, perché è il suo tema a essere complesso e, in questo caso, a essere sviluppato con pienezza, senza creare personaggi o situazioni strappalacrime.
Il tutto è sviluppato come un monologo che la protagonista recita, forse, in una clinica psichiatrica. Dura tre giorni, eppure molte volte ci sorgerà il dubbio che ogni cosa stia avvenendo in un luogo dell’anima, in un anfratto profondo della coscienza, in cui ci si confessa con la speranza di resuscitare.