L’origine di Thomas Bernhard: eredità e superamento dei “deprimenti filosofi francesi”

L’origine di Thomas Bernhard: eredità e superamento dei “deprimenti filosofi francesi”

Articolo di Renzo Favaron. In copertina: Una foto di Thomas Bernhard di Monozigote, via Wikipedia

L’origine, come afferma lo stesso Thomas Bernhard, è la storia di una “malattia mortale” inestricabilmente intrecciata a Salisburgo. La città austriaca non fa solo da sfondo, ma è un vero e proprio teatro della memoria in cui prendono forma e cominciano a definirsi i tratti individuali del protagonista, tratti individuali che condizioneranno e struttureranno precocemente la sua personalità futura e le sue scelte. Oltre che ritratto autobiografico, in altre parole, L’origine è anche da leggersi come romanzo di formazione riferito a un periodo personale cruciale e oltre modo contraddistinto da esperienze traumatiche, veri e propri urti esistenziali che non cesseranno mai di scuotere la coscienza di Thomas Bernhard (tanto da confessare che è stato un periodo che ha ottenebrato “il suo primissimo e primo sviluppo, sviluppo comunque funesto e per le sua esistenza sempre più decisivo”).

Ciò che risulta essere un urto estremamente doloroso, è in primo luogo l’essere stato separato da tutti i membri della propria famiglia (in particolare dal nonno materno) e contestualmente obbligato a frequentare un convitto in cui riceve una formazione contraria alla propria volontà. Tuttavia, ancora più doloroso (sotto l’aspetto psicologico) è la percezione di essere stato abbandonato, di essere stato tradito e privato della possibilità di crescere, per quanto possibile, liberamente e senza essere esposto a vessazioni e discriminazioni (quelle, ad esempio, subite e riportate in Un bambino).

Forse non è inutile riferirsi o attingere alla lettura di Piazza degli eroi (testo teatrale rappresentato a Vienna nel 1988), che mette sotto la lente d’ingrandimento le distorsioni sociali e politiche del proprio tempo, ma in cui echeggia e risuona il clamore e l’adesione festante, quasi totale, della popolazione austriaca che accompagnò l’annessione operata dalla Germania nazista, nel 1938.

Ciò che è interessante e centrale di questa pièce, al di là di una superficie teatrale dai vaghi echi barocchi e a uno sguardo rivolto all’attualità più ampia, è infatti la denuncia della perdurante ideologia nazionalsocialista che impregna ancora di sé e pervade la società austriaca, quella stessa ideologia a cui era subordinata l’istruzione e l’educazione dell’autore austriaco durante gli anni cruciali della prima fase dell’età evolutiva, cioè de L’origine. È come se, attraverso una delle distorsioni temporali tipiche della scrittura di Thomas Bernhard, a occupare il ruolo di testimone fosse ancora il bambino abbandonato alle grinfie dello spirito hitleriano, uno spirito perverso e malvagio che lo ha ossessionato e contro il quale l’autore ha dovuto lottare per tutta la vita.

Immediatamente dopo la rappresentazione di Piazza degli eroi, per altro, furono rivolte diverse critiche all’autore per la gratuità delle sue osservazioni e delle sue descrizioni. Pur individuando i tratti di una rielaborazione associata ad una coazione a ripetere, non si può altresì negare, basti pensare ai riciclati tipo Kurt Waldheim, che risultano assolutamente legittime e tutt’altro che frutto di una mente malata (più o meno quello che disse di lui il vescovo di Vienna) i fantasmi riconducibili all’annessione e insieme i ritratti (apparentemente) impietosi e acidi della società austriaca tratteggiati attraverso l’ultima pièce scritta da Thomas Bernhard.

Dopo la fine della Germania nazista, tornando a L’origine, non meno problematica risulta essere la ripresa della frequenza scolastica, anche se il convitto è adesso gestito da religiosi. Anzi, non a caso si è citato il testo teatrale Piazza degli eroi, perché niente (o molto poco) sembra essere sostanzialmente cambiato. Così l’autore racconta: “… dove prima c’era il ritratto di Hitler pendeva adesso una grande croce… l’intero ambiente non era stato nemmeno ritinteggiato e si poteva scorgere la macchia… dove per anni era stato appeso il ritratto di Hitler”. Non è solo la facciata esteriore ad essere pressoché simile se non addirittura uguale, ma anche l’impostazione e l’indiscutibilità del programma educativo che ha sostituito la dottrina ispirata dal e al nazionalsocialismo. Ancora una volta il giovane Thomas Bernhard è costretto a subire l’influenza di una visione del mondo dogmatica e comunque che lascia poco spazio alla possibilità di sviluppare autonomamente i “mezzi di indagine e di risoluzione dei problemi”, come auspicato da Rousseau nel suo Emilio e dell’educazione. (L’opera testé citata, per inciso, la si può considerare e assumere come un ipotesto che, consapevolmente o meno, presiede e accompagna L’origine.) Del resto, puntuale e implacabile nel dare conto di sé e della realtà, l’autore non ha alcuna remora a puntare lo sguardo e smascherare l’ottusità e l’ignavia, se così si può dire, di una istituzione religiosa che gli appare esangue e che si limita, come afferma nel testo autobiografico, a “sovrapporre una nobile decorazione a qualcosa di putrido”.

Già, proprio così: qualcosa che non lo aiuta ad uscire da uno stato di depersonalizzazione e di grave emarginazione. In questo senso, sperimentando quotidianamente una realtà in cui è umiliata e negata ogni aspirazione individuale, non sorprende che il protagonista sia tormentato e fatalmente abitato da idee suicidarie (cosa che va interpretata, parafrasando Karl Jaspers, non tanto nei termini di una autonegazione o abdicazione, quanto piuttosto come “un’affermazione sbagliata di se stessi”).

Vero è che durante la lettura si ha l’impressione che il fanciullo indulga in queste idee come per compiacersene o senza che lo tocchino davvero in profondità, quasi che potessero aiutarlo (paradossalmente) a escludere la realtà dalla testa (alla stessa stregua si possono interpretare gli esercizi di violino come momenti di evasione attraverso cui si diluisce e stempera la soffocante coscienza della propria condizione). Nondimeno, più si inasprisce il contrasto tra le esigenze personali e quelle del collegio, più risulta difficile tenere nascosta la propria sventura. E così, anche se la si può considerare una scelta dettata da fattori esterni più che rispecchiare un atto razionale, il giovane Thomas Bernhard scappa via e inizia un periodo di apprendistato in un negozio di generi alimentari, il che ha indubbiamente un contatto ed è associabile con quanto si legge nel Libro terzo de L’Emilio o dell’educazione, dove è esaltato il ruolo del lavoro quale strumento per essere “indipendente dalla fortuna e dagli uomini”.

Non diversamente da ciò che si è già segnalato, pare a noi che L’origine non ignori e anzi si offra come una testimonianza in cui è riscontrabile una vera e propria contiguità con il pensiero del filosofo francese, ossia di riconoscere al lavoro la stessa dignità dell’istruzione. A questo riguardo, come se assecondasse un intento pedagogico, è lo stesso Thomas Bernhard a parlare in termini positivi dei tre anni passati nella bottega di Podlaha, al punto da riconoscere a quest’ultimo di averlo aiutato “a vivere con gli altri e precisamente a vivere in compagnia di molte persone tra loro diversissime, oltre che essere stato addestrato alla realtà più grande che possa esistere, la realtà assoluta”.

Spingendoci ancora più a fondo nell’indagare i frammenti di ipotesto sottesi a L’origine non meno che a La cantina, si può altresì notare un alto grado di affinità e una forte immedesimazione, riconducibili al periodo in cui l’autore austriaco si riprendeva dalla tubercolosi, con la vita e l’opera poetica di Arthur Rimbaud (1). Sorvolando su alcuni elementi biografici quasi coincidenti (ad esempio, una comune insofferenza nei confronti delle trite ritualità e credenze religiose o il precoce distacco dal contesto familiare), è indubitabile che entrambi gli autori prestino attenzione e valorizzino figure che ai loro occhi si stagliano per agire e pensare indipendentemente da stereotipi sociali e culturali.

Per quanto riguarda Arthur Rimbaud, in particolare, ciò emerge e lo si può cogliere alla lettura di poesie come Les Mains de Jeanne-Marie, Les pauvres à l’ église e Les Poètes de sept ans. Quasi riprendendone i temi e riproponendone delle variazioni, l’autore austriaco ci offre altresì dei modelli concreti di individui pervasi da uno spirito tollerante, uno spirito intellettualmente autonomo (quali, ad esempio, gli abitanti del sobborgo di Salisburgo e la figura del nonno). Inoltre, entrambi vissero sulla loro pelle il trauma di eventi storici che erano la negazione degli ideali illuministici e del primato della ragione, a cui era associato un orizzonte universale di sviluppo e progresso.

Insieme a tali corrispondenze, occorre però segnalare l’impatto funesto che ebbe la Comune di Parigi sul giovane poeta francese, così da essere indotto a scrivere che il suo cuore è stato depravato e a causa di ciò, deluso e ferito nello spirito non meno che nel corpo, di lì a poco deciderà di abbandonare la Francia e di tacere come poeta. Parimenti, mentre afferma l’importanza che hanno avuto autori come Voltaire e B. Pascal, Thomas Bernhard imbastisce parallelamente trame che presentano personaggi in cui sono visibili i sintomi di una follia che nasce e monta sempre di più a causa di un uso esasperato della coscienza (ragione?) e dello spirito critico (come nel personaggio de L’origine e, più marcatamente, nel personaggio che campeggia nel romanzo Il soccombente).

A differenza di Arthur Rimbaud, inguaribilmente deluso e nauseato, Thomas Bernhard vivrà, tranne una breve parentesi in Inghilterra, tutta la vita in Austria. Vi vivrà incarnando ciò che ebbe a dire Denis Diderot a proposito dell’autore, ossia che “è tanto più grande quanto più usa la testa e meno la sensibilità innata”. A questo riguardo ci sembra emblematica l’affermazione che Thomas Bernhard mette in bocca a un personaggio del testo teatrale Ritter, Dene, Voss: “Sempre ai confini della pazzia/ mai superare quei confini, ma sempre ai confini della pazzia/ se lasciamo questa zona di confine/ siamo morti”.

 

1) La conoscenza e l’attenzione prestata al poeta francese è attestata da un dattiloscritto risalente al 1954 conservato nell’archivio T. Bernhard di Gmunden e porta il titolo: Thomas Bernhard: Jean Arthur Rimbaud. In onore del centenario dalla sua nascita

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