Gelo. Thomas Bernhard e l’origine dello sfacelo
Recensione di Martino Ciano. In copertina: “Gelo” di Thomas Bernhard, Adelphi, 2024, prima edizione 1963
È un gelido sospiro quello che attraversa le pagine del primo romanzo di Thomas Bernhard, ripubblicato da Adelphi a fine gennaio 2024. Quando nel 1963 comparve per la prima volta, fu tanto esaltato quanto dileggiato. Lo scrittore austriaco non la prese troppo bene, ci mise un po’ per capire che certi salotti chiedono a gran voce qualcosa che sconvolga, ma poi, a conti fatti, non lo gradisce troppo. È un po’ ciò che succede oggi, ma con tempi più rapidi; infatti, in pochi mesi gli applausi si trasformano in fischi, fin quando il silenzio non archivia tutto in favore di improbabili posteri.
Bernhard pubblicò questo romanzo quando si era aperto il dibattito sulla “letteratura delle macerie” e mentre in Italia si costituivano quei gruppi avanguardisti che, pian piano, avrebbero creato nuove dittature culturali capaci di elevare la mediocrità a libertà di espressione e vicinanza al popolo, fino a giungere all’istituzione di un nuovo misuratore della “bravura”, ovvero la popolarità.
Thomas sapeva che non avrebbe accalappiato il popolo, anzi era conscio del fatto che se lo sarebbe cominciato a inimicare, perché sfogliando Gelo si nota anche quell’operazione di recupero del rimosso rimorso nazista con cui tedeschi e austriaci non avevano mai voluto fare i conti. Il fulmineo passaggio dalla dittatura alla democrazia controllata silenziò l’elaborazione del lutto, ma questo processo fu anche una manna dal cielo per coloro che avevano intenzione di riciclarsi.
Bernhard però era diverso, non solo rompeva il silenzio, ma aveva in mente di demolire il romanzo. Voleva porre l’attenzione su quei retaggi “romantici” del popolo tedesco, ossia l’eterna lotta contro la natura, la perpetua e intransigente ricerca dell’origine del caos, il dominio delle passioni e dell’indifferenza, il turbamento dell’anima che innesca la malattia del corpo. Infatti, se è vero che lo Zarathustra di Nietzsche era venuto a proclamare la morte di Dio e degli Dei, nonché il recupero del corpo, dall’altra era anche necessario guardare a quell’invisibile forza che assorbe ciò che tutto intorno viene rilasciato.
La malattia ha origine nell’anima? Sì, e lo capirà anche lo studente di medicina incaricato di seguire Strauch, il pittore che ha deciso di bruciare tutti i suoi quadri, che non vuole più avere contatti con l’arte, che si è rifugiato a Weng, uno dei borghi più lugubri dell’Austria. È lui che guarda allo sfacelo del mondo, perché non c’è bisogno di grandi orizzonti per vedere il declino, per tastare l’abisso; a volte basta contemplare il giardino della propria casa, assorbendo tutto, anche a costo di ammalarsi. Ecco allora la locandiera, una donna infima, brutta, lasciva, forgiata dalla violenza del marito finito in carcere. La sua ignoranza, o meglio la sua cecità, è immagine di quella violenza indifferente, banale, che aveva toccato quei territori fino a pochi anni prima.
Poi c’è l’ingegnere che vuole portare a termine la centrale elettrica, laddove non potrebbe sorgere; lì dove la natura ha pensato ad altro. È lui il simbolo di quella lotta per il dominio, per quello stravolgimento dell’ordine delle cose che rende i tedeschi eterni adolescenti; Georg Baselitz, nel suo celebre quadro La grande notte nelle fogne, fa confluire i “germani” nella figura di un ragazzino deforme che tiene il suo pene indurito tra le mani. Parallelismo che non si adatta a Bernhard, quasi asessuato nei suoi romanzi, ma che rende bene l’idea.
Ecco l’eterno Priapo, simbolo di tutti i fascismi; d’altronde, anche l’esasperazione della tecnica è un fascismo. E in mezzo c’è Strauch, malato nel corpo, ma prima di tutto nell’anima; convinto delle sue scelte, del suo isolamento, del suo disfattismo. Apparentemente, sembra che la sua sia una lotta, invece è la resa incondizionata di chi sa che non c’è scampo. Rifiuta di curarsi non per superbia, ma perché sa che curandosi si ammalerebbe di un morbo ripugnante, di una malattia che è dell’intera umanità contemporanea, ossia la cecità.