Anatomia di una caduta. Un’apparente perfezione…

Anatomia di una caduta. Un’apparente perfezione…

Recensione di Antonio Maria Porretti. In copertina la locandina tratta dal web

La Verità? Cos’è che distingue un film da un Film?

È una domanda alla quale chiunque può fornire una sua risposta in base alle proprie esperienze, aspettative ed esigenze. Ma provando a formulare – sia pur nella maniera più vaga e grossolana – un principio di massima, ciò si compie quando non si riscontri compattezza e organicità di ogni suo elemento. In poche parole, quando non vi è neppure l’ombra di una sbavatura.

Quando dalla scrittura (giacché un film lo si scrive prima di girarlo), passando per ogni fase e aspetto tecnico della sua realizzazione, fino ad arrivare alle ultime fasi di montaggio, il risultato è quello di una coerenza a tutto tondo. Se tale “tout se tient” può rappresentare un parametro valido, Anatomia di una caduta rientra allora a pieno titolo nella seconda categoria.

Justine Triet, la regista, nonché co-sceneggiatrice insieme al suo compagno Arthur Harari, mette in piedi un impianto narrativo che s’iscrive in quella “Analisi delle Passioni” così tipica e peculiare della letteratura e cinematografia francese. Nomi come Simenon, Chabrol, Clouzot, per citarne alcuni, saltano subito alla mente, nel corso della visione. Grandi raccontatori di certi inferni domestici.

Anche in questo caso, luci e riflettori sono puntati sulla vita di una coppia; della sua dissoluzione…

Sandra e Samuel sono due quarantenni che hanno sempre gestito il loro ménage senza nessuna tradizionale suddivisione di ruoli. Una coppia emancipata, come si suol dire. Da circa un anno si sono stabiliti in uno chalet d’alta montagna nelle Rhône-Alpes, vicino Grenoble, insieme al loro unico figlio Daniel.
Sandra è una scrittrice ormai affermata, con una carriera decisamente in ascesa, apparentemente soddisfatta di come stia procedendo la sua vita, sebbene lasci trapelare qualche zona d’ombra durante l’intervista che una studentessa, sua ammiratrice, le sta facendo nella scena iniziale.

Intervista interrotta per il volume troppo alto con cui Samuel sta ascoltando una musica che rimbomba ossessiva dall’alto della sua soffitta. Un modo aggressivo per segnalare la sua presenza in casa. Anche lui sta provando a diventare uno scrittore di successo, nonostante la crisi di creatività in cui è caduto.

Si tratta di due personalità dal tratto estremamente forte e volitivo, che si ingombrano a vicenda. Poi, quasi inavvertitamente, l’evento che pone fine al loro rapporto: la morte di Samuel.

Incidente involontario? Suicidio? Omicidio? A stabilirlo sarà un processo nel quale Sandra figura come unica sospetta.

Nei più solidi procedimenti e sviluppi di un “Legale Drama”, a questo punto è l’istruttoria a tenere banco. Più il dibattimento avanza, più Accusa e Difesa duellano sconfessandosi a vicenda, più emerge la realtà a monte della coppia: due meduse che continuano a galleggiare nelle stesse acque, pronte a mordersi fra loro non appena l’occasione ne dia loro il pretesto.

Il clou della pellicola è proprio la ricostruzione della lite avuta il giorno prima della “caduta”, in cui ciascuno graffia l’altro con parole zeppe di reciproche accuse, invidie, gelosie.

Samuel avrebbe provocato – sia pure in maniera indiretta – l’incidente che ha finito per rendere ipovedente Daniel all’età di quattro anni ( ora ne ha undici).

Sandra avrebbe rubato a Samuel l’idea portante del romanzo che lui stava scrivendo e che da allora non ha più ripreso, uccidendo in tal modo la sua vena creativa. Sandra gli rinfaccia la sua incapacità di gestire al meglio il suo tempo. Samuel l’accusa di aver lasciato a lui solo tutto l’ onere della ristrutturazione della loro baita…

Ogni rancore per lungo tempo accantonato viene riesumato senza esclusione di colpi. A immagine e in simbiosi del processo in corso, dove pubblico ministero e avvocato difensore riescono entrambi a creare una tesi sostenibile, ma corrispettivo di una verità sempre parziale.

E poi arriva la testimonianza di Daniel, decisiva per il raggiungimento di un verdetto, ma non meno gravida di ambiguità.

Ed è questo l’obiettivo a cui mira questa analisi condotta con la lucidità di un patologo: affidare alla coscienza dello spettatore l’eventuale scioglimento del dubbio. Farsi una sua idea della verità; di come i fatti si siano prodotti e accaduti. Non vi è una risposta definitiva e all’ unanimità condivisa. Come non esiste una sola verità che si possa definire compiutamente tale.
Altro punto focale della pellicola è mostrare a quali livelli di tossicità possa arrivare una relazione disfunzionale, ormai alla deriva, dove comunque “a una donna non si perdona mai il successo, una donna deve sempre scegliere fra sé e la coppia, fra sé e la famiglia, altrimenti non è abbastanza donna”.

Una delle frasi più emblematiche e chiave per entrare nelle dinamiche di questa storia. Troppo frequente, ancora.

Prima di concludere, non posso passare sotto silenzio la prova più che eccellente dell’intero cast. In particolare di una Sandra Hüller che imposta tutta la sua interpretazione a servizio di un’ambiguità senza tregua sfuggente del suo personaggio, procedendo per compressione dei suoi stadi emotivi, in modo da lasciarli deflagrare al massimo della loro potenza quando occorre. Una prova che enfatizza e lascia rimbombare dentro quella pungente domanda: sarà colpevole o innocente?

Senza tralasciare la performance di Milo Machado Graner, a dir poco straordinario nel dar vita a un Daniel che la vita renderà adulto troppo in fretta.

A questo punto non mi resta che augurare – per coloro non lo avessero ancora visto (e in tal caso riparare al più presto) – buona visione.

 

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