Victor

“Victor” è un racconto di Caterina Torchio. In copertina una foto di Padraig King, tratta da Pexels a uso gratuito
Voleva regalarsi un sogno Victor. Quel sogno che suo padre gli aveva negato, abbandonando lui e le sue due sorelle per tornare in Romania.
Vadim era sparito ingannando tutti. All’improvviso. Con l’occorrente stipato in una piccola valigia di tela scambiata e la fretta negli occhi.
Sulla porta aveva raccomandato a sua moglie i tre figli. Freddamente. Le condizioni dell’anziana madre erano peggiorate. Era sola e non sarebbe stato giusto lasciarla morire così, aveva spiegato congedandosi, mentre sbrigativamente assicurava che sarebbe tornato presto.
Victor, il più piccolo, era rimasto nella sua camera, sottraendosi al saluto: era certo che gli avrebbe spezzato il cuore.
Ma Vadim aveva aperto la porta senza bussare, si era seduto sul letto del bambino e, senza guardarlo negli occhi, gli aveva spiattellato che gli uomini non piangono. Lo aveva poi tirato a sé, bruscamente, per stringerlo al petto, e senza baciarlo, aveva scandito “tornerò, te lo prometto. Fai il bravo”.
Le figlie non avevano tradito alcuna commozione. Le parole del padre le avevano convinte. E dopo avergli consegnato un piccolo scatolino di cioccolatini per la nonna, lo avevano abbracciato, sorridendo. “Fai buon viaggio, papà”.
Per Victor era diverso. Quel padre sempre un po’ distante e incommovibile era il suo punto di riferimento, il suo maestro.
Da lui aveva imparato a pescare tra gli scogli, in riva alla spiaggia di Fiuzzi, affidando alla risacca l’eco delle loro risa. Era una melodia lenta e ripetitiva che incrociava i colori del tramonto, per polverizzare, finalmente, le frequenti tensioni familiari abituate al lessico della violenza. Spesso non solo verbale.
Vadim e Ariana litigavano sempre più spesso ormai. Non c’era più luce nella loro casa per le tapparelle che Victor abbassava chiudendoci dentro le minacce che i due si scambiavano.
E il frastuono di urla e oggetti, schiantati contro le porte, avvelenava la purezza dell’aria lì dentro e la serenità dei tre ragazzini.
Vadim amava sua moglie e ancor più i suoi figli ma lo faceva attraverso il vocabolario della violenza scandita dalla rabbia. Non accettava l’etilismo della donna, irresponsabilmente fragile e inadatta al suo ruolo di madre.
Fare a botte era diventato, per i due giovani coniugi, come fare l’amore. Una pulsione irrefrenabile, l’istinto malato di un amore disperato.
Così la brutalità dei loro istinti, i problemi economici e le fragilità della loro mamma diventavano paradigmi familiari di un mondo che non sapeva regalare a quei tre fratelli panorami diversi.
Era, in fondo, una normalità malata che si consumava nella quotidianità di una famiglia che declinava l’amore in quel modo.
E Victor quel padre violento l’attese per giorni, per settimane e per mesi, senza riuscire a spiegarsi la ragione della sua assenza. Sua madre gli aveva spiegato che la nonna non aveva retto alla malattia, che nonostante le cure del padre, era morta dopo qualche giorno dal suo arrivo in Romania. E questo rendeva ancor più inspiegabile la ragione della sua permanenza lì.
Ma il dubbio che fosse accaduto dell’altro iniziò a turbare il ragazzino. Temeva che suo padre fosse stato contagiato dalla malattia della nonna, che potesse star male.
E in un afoso pomeriggio di luglio, questi pensieri iniziarono a martellargli la mente.
Voleva la verità. Aveva bisogno di suo padre. Gli mancava. La casa era drammaticamente gelida nonostante la temperatura bollente. Il silenzio contemperava il baccano che aveva sempre riempito quelle stanze.
Tutto era senza senso, anche la serenità che non gli era mai appartenuta. Che non conosceva. Che era fuori dalla logica del suo vivere.
Gli mancava il rumore della rabbia che tante volte gli aveva aggredito le orecchie.
Il dolore di un abbraccio mai ricevuto. L’indifferenza di fronte al suo pianto. La solitudine.
Tutto spariva maledettamente, stravolgendo il ritmo delle sue giornate che si fermavano a quell’addio, in camera sua, sul suo lettino.
Suo padre era tutto questo, ma anche il contrario di questo. Il suo opposto. E nella logica perversa degli opposti, il bambino aveva, in qualche modo, costruito il suo equilibrio.
Victor prese il cellulare di sua madre che era in bagno a prepararsi per andare al lavoro.
Faceva la cameriera in una pizzeria in centro. Lavorava fino alle tre del mattino da anni e malediceva suo marito che non portava, da altrettanti anni, un centesimo in casa.
Il rumore della doccia, dietro la porta chiusa, avrebbe permesso a Victor di parlare senza essere sentito. Doveva far presto però, era tardi e sua madre sarebbe uscita portando con sé il cellulare.
Uscì nel giardinetto che si stendeva dinanzi al portoncino. Era piccolo e abbandonato. Pieno di sterpaglie ed erbacce. Attraversarlo a gambe scoperte era fastidioso e a tratti rischioso. Poteva lacerare la pelle e nascondere rettili e insetti.
Victor non se ne curò. Compose il numero velocemente. Si allontanò dall’ingresso di casa il più possibile. Faceva caldo benché il sole avesse preso la direzione dell’orizzonte, determinato, in quell’ora del giorno, a immergersi in mare. Non furono tanti gli squilli, Vadim rispose presto.
“Ari, basta, non devi più chiamarmi. È finita.”
Victor allontanò il cellulare dall’orecchio come per proteggersi, mentre il cuore gli sussultava in petto impazzito e una sensazione di soffocamento gli chiudeva la gola.
Non voleva più sentire altro. Interruppe la chiamata e senza perder tempo, corse in casa per riporre il cellulare sul tavolo in cucina, dove lo aveva lasciato sua madre. Poi scappò fuori, verso la strada. Correva. Scappava da quella storia. Dalle parole di suo padre. Dal futuro a cui lo stavano condannando. Dalla solitudine che aveva appena assaporato e che non gli piaceva. Vadim aveva chiamato sua moglie, come faceva sempre, con quel vezzeggiativo che continuava ad esprimere, velatamente, sentimenti contrastanti. Ma ora era diverso. Ari costituiva un’abitudine da perdere, la ragione dell’abbandono di tutta la famiglia.
Non rientrò quella sera Victor, vagò per le strade del paese fino a tardi. Senza una meta. Con la testa svuotata di ogni pensiero, senza la forza di ragionare e il coraggio di scoprire il motivo della scelta di suo padre.
In fondo lo sapeva.
Le lacrime gli solcarono il viso fino a macchiargli la pelle e a infiammargli gli occhi. I capelli, lisci come fili di seta dorata, si scompigliarono sulla fronte.
Era disperato.
Scopriva l’abbandono. Lapidario, incisivo, tagliente. E gli penetravano dentro, affilati come lame appuntite, la paura e il dolore del distacco.
Rientrò poco prima che rincasasse sua madre, si sdraiò sul letto con l’animo congelato dentro al petto. Dalla gola secca uscirono in romeno invettive contro sua madre, contro suo padre e contro sé stesso per non aver saputo cogliere i segni di una storia familiare malata e poi morta.
Sua madre lo trovò addormentato ancora vestito. Intuì che fosse digiuno per non aver lasciato sul piano cottura piatti e stoviglie sporchi come era solito fare. Avrebbe preferito arrabbiarsi con lui per il disordine e, nel cuore della notte, dover ripulire la cucina: quel caos avrebbe significato che era tutto a posto. Ma presentiva che qualcosa stesse per accadere a quella creatura mai partorita davvero. Ancora carnalmente parte di sé, più delle altre due figlie. Victor aveva gli stessi occhi di suo padre, e, scolpiti sul viso, i suoi lineamenti marcati.
Era il risultato migliore della sua storia di madre e, in qualche modo, di moglie.
Non lo svegliò per chiedergli se stesse bene. Lo lasciò dormire mentre bisbigliava lamenti incomprensibili.
Restò a osservarlo in silenzio, assestandogli il lenzuolo che era scivolato quasi completamente sul pavimento. E pensò che quel figlio fosse la continuità sana del suo amore malato.
E Victor crebbe da solo, senza più chiedere di suo padre e senza avvertirne la mancanza.
Aveva 14 anni. Pochi per sentirsi grande e tanti per fare il bambino.
E in fondo bambino non lo era mai stato.
Non aveva mai conosciuto il piacere di poter scegliere, né assaporato la dolce trepidazione dell’attesa di qualcosa di bello.
Solo una volta aveva confidato a suo padre, timidamente, di avere un sogno, lasciandosi sfuggire la fragile aspettativa di una vita diversa.
Vorrei regalarmi una casa con tre camere da letto, con termosifoni per l’inverno e un piccolo giardino senza erbacce.
Aveva deplorato, con la malinconia negli occhi, inserendoci anche la dignità di una camera da letto per i genitori abituati ormai, da sempre, a tirare il divano della cucina, ogni sera, per dormirci. Aveva poi chiuso quell’amara dichiarazione nell’entusiastico progetto di una macchina parcheggiata dinanzi al giardino di casa.
Era stanco di camminare a piedi per andare a scuola, spesso sotto l’inclemenza della pioggia e del vento.
Stanco di accampare scuse al compagno di banco che chiedeva di fare i compiti da lui, perché ospitarlo nella sua cameretta sarebbe stato imbarazzante.
Mancava tutto il necessario per poterla vivere dignitosamente quella stanza: un letto con testiera, un armadio capiente e qualche scaffale. Mancava l’arredo minimo per rendere quel piccolo ambiente accogliente.
E alla desolazione imbarazzante dell’essenziale resisteva una rete, priva di testiera e pediera, su cui si assestava un materasso dalle molle danneggiate. Una vecchia sedia a dondolo con archetti oscillanti bucherellati dalle tarme, sormontata dal disordine di panni sgualciti che non rientravano nel piccolo armadio di fronte, ingolfato degli indumenti della sorella più piccola. E poi, sui muri grigi per la muffa, che emergeva dalle macchie di umidità, mancavano tende e quadretti. Nessun poster del cantante preferito, nessuna cornice con foto di compleanno o di gite scolastiche. Nessun peluche. Nulla che facesse pensare ai desideri di un ragazzino di 14 anni, che voleva disegnare, con la penna e con il pensiero, il suo mondo.
Eppure quei quattordici anni, Victor, li aveva incastrati in quella stanza, schiacciati dalla necessaria condizione di sopravvivenza che sempre più gli trasmetteva ansia di riscatto e rabbia per il tradimento immeritato di suo padre. Un tradimento che frizionava con la sua storia di bambino.
E mentre annegava nella vaghezza di una storia smarrita nel pulviscolo infinito dei sogni, si aggrappava con forza all’esattezza di certezze ormai incontrovertibili, incrinando però il suo equilibrio esistenziale nel disperato bisogno di ritrovarsi.
Un giorno aveva incontrato Mimì, un maggiorenne di buona famiglia dalla condotta sociale disturbata e disfunzionale, che frequentava la piazzetta del comune, ritrovo dei ragazzi del paese.
Inizialmente non c’era stata simpatia tra loro. Victor era un piccolo morto di fame, aveva detto al gruppo, una sera, osservando il ragazzino parcheggiare la sua bicicletta arrugginita al paletto vicino alla chiesa. E pensare che non era neppure sua, che Victor aveva litigato con sua madre per averla in prestito.
I ragazzi ammiccarono tra loro, vedendolo arrivare. I più spietati sorrisero. Non sapevano nulla di quella bici, di sua madre che gliela prestava solo quando non le serviva per andare al lavoro.
Victor non disse nulla, finse di non aver sentito. Si avvicinò ai ragazzi e con naturale disinvoltura salutò Mimì che si intratteneva scherzosamente con loro. Poi gli sferrò un pugno all’altezza dello stomaco, imprimendogli sul viso un’evidente espressione di dolore, e minacciò di rifarlo se solo avesse osato definirlo, un’altra volta, un morto di fame.
E il silenzio condannò quel gesto, nessuno ebbe il coraggio di reagire, né di raggiungere Victor mentre riprendeva la bicicletta per tornare a casa.
Erano sgomenti e increduli e in qualche modo affascinati dalla personalità del piccolo romeno che, solo ora, conoscevano davvero.
Solo Mimì gli urlò di fermarsi: aveva la voce affannata dal dolore ma non abbastanza da rinunciare a proporgli un affare.
Victor non si voltò. Cavalcò la bicicletta di sua madre e andò via. Non era agitato ma profondamente umiliato. Le lacrime scivolavano verso le orecchie per effetto del vento che si opponeva alla corsa. Maledisse suo padre che lo aveva lasciato solo e, in quell’istante, realizzò che la vita stava andando avanti troppo velocemente per lasciarla tra gli ingranaggi della sua giovane età.
Non era più tempo di andare a scuola né di condividere interessi e passioni con quel piccolo gruppo di pari che incontrava ogni giorno in piazzetta. Era tardi per giocare a pallone nel campetto della
parrocchia e sperare che Laura, compagna di classe, potesse continuare a fare il lifo per lui. Era forte e atletico nella fisicità della sua altezza e della sua muscolosità, ma non aveva più tempo per praticare sport.
E poi a scuola non poteva più tornarci. Era da un po’ che provava imbarazzo per la sua corporeità in disarmonia con quella del resto della classe. Era ancora in seconda media Victor, essendo stato respinto per due volte a causa delle numerose assenze registrate.
Non aveva idea di cosa Mimì volesse offrirgli ma intuì che non poteva essere nulla di buono. La cosa gli suscitò un’emozione frizzante come una ventata di aria fresca dopo una giornata di caldo torrido.
Continuò a pedalare, certo che da quel momento avrebbe goduto di una considerazione diversa.
Quel pomeriggio stava cambiando la sua vita.
Le certezze, che stentatamente faceva rientrare nel perimetro della sua goffa esistenza, morivano insieme alla voglia di crederci. Restava senza Dio, Victor, morto anche lui. E iniziava a scendere nell’inferno che si era scavato da solo, senza rendersene conto. Deciso a prendersi tutto ciò che gli serviva. A qualsiasi costo.
Una sigaretta accesa buttata su un cespuglio al limitare dei un bosco in estate. Infiammabile e infiammante. Esplosivo o, forse, implosivo. Questo stava diventando.
Disperatamente spregiudicato e spregiudicatamente disperato.
Entrò in affari con Mimì. Programmarono le dinamiche di interventi malavitosi come se fossero nati per quello. Con naturalezza e disinvoltura. Non si spiegarono. Mimì gli affidò la piazza dietro al Municipio senza direttive. Non si guardarono negli occhi. Gli sguardi negli occhi, Victor, li riservava alle persone che stimava. Provò piacere poi nel pensare al dolore che avrebbe arrecato a suo padre, se lo avesse saputo coinvolto nei pericolosi narcotraffici gestiti da Mimì. E non gliene fregò nulla del pianto in cui sua madre avrebbe sciolto la consapevolezza dell’ennesimo fallimento familiare, perché quando l’alcol non era sufficiente ad anestetizzarne il dolore, lei piangeva. Si appostava, ogni sera, all’angolo meno illuminato della piazzetta che si rialzava tra lungomare e strada. Dietro agli uffici comunali. Proprio dove tutti avrebbero potuto vedere ma di fatto non vedevano nulla. Un luogo troppo in vista per poterlo collegare a un’attività illecita. A volte da solo, a volte con Mimì, sempre però lui a smerciare: a pesare, estraendo un bilancino dallo zainetto poggiato di fianco al cestino dei rifiuti, dove riponeva le banconote che riceveva con meccanismo gestuale veloce e preciso. Non si confondeva mai, Victor, era lucido e concentrato. Teneva riposta nella tasca destra del giubbotto la cannabis, chiusa in piccole buste sigillate e nella sinistra un quantitativo più modesto di polvere bianca cristallina anch’essa in bustine. Prelevava le sostanze dallo zaino in piccole dosi, distanziandosi un pochino dallo zaino che lo avrebbe potuto incastrare. Questo glielo aveva insegnato Mimì. Solo questo. Per il resto, non c’era stato bisogno di sapere e conoscere nulla. Nulla da imparare.
Qualcosa però andò storta, una sera. Un infame gli assestò un tiro mancino. E la squadra mobile lo sottopose a fermo insieme a Mimì. Erano indiziati di reato di spaccio perché colti in flagranza di reato. Victor non aveva fatto in tempo a incastrare lo zainetto stipato di roba nel cestino dei rifiuti. Un agente l’aveva afferrato per capovolgerlo, mentre un altro strappava dalle tasche del giubbotto di Mimì il corposo mazzo di banconote, forzandone le cerniere. L’approccio verso i due ragazzi non era stato paritetico. Victor era stato strattonato durante la perquisizione e intimorito circa le conseguenze penali del fermo mentre a Mimì avevano dato la possibilità di chiamare i genitori prima di salire in macchina. “Parla, romeno di merda – aveva attaccato l’agente che afferrava Victor per il braccio – sei fottuto, quest’altro è un figlio di papà e scaglieranno su di te ogni responsabilità”.
In caserma avevano chiamato il difensore d’ufficio per Victor, senza insistere nel telefonare a sua madre, che non rispondeva al cellulare. I genitori di Mimì si erano presentati insieme al miglior penalista della zona.
Il difensore incaricato, una donna sulla cinquantina, avvolta in un cappotto di cashmere grigio perfettamente intonato al colore dei capelli, entrò con lo sguardo distratto e verosimilmente seccato per la convocazione a quell’ora.
Si sedette di fianco al ragazzo senza guardarlo negli occhi, e gli raccomandò di star tranquillo, mentre rivolgeva agli agenti, che lo stavano interrogando, l’invito a trattare il ragazzino romeno con maggior rispetto. Lo stavano terrorizzando e questo non era consentito.
Quel quantitativo di polvere e di erba insieme al bilancino sul fondo della sacca, faceva escludere qualsiasi ipotesi di uso personale delle sostanze. E quella roba colpevolizzava il ragazzino straniero che la deteneva. Il denaro ritrovato nelle tasche del figlio dell’imprenditore era il regalo di compleanno fatto da parenti facoltosi, aveva giustificato l’avvocato, dettagliando il programma del ragazzo di portar fuori a cena gli amici, proprio quella sera. Erano stati poi rimessi in libertà. Mimì si era infilato nella Porsche Panamera di suo padre con lo sguardo basso, ignorando il compagno di attività come se non lo conoscesse per nulla. Victor sotto una pioggia sottile ma gelida e con la vergogna negli occhi, si era avviato verso casa.
Le luci dello stradone isolato, che precedeva la traversa desolata di casa sua, gli accecavano la vista seppure lo sguardo graffiasse l’asfalto, tanto era basso. Nessuna lacrima avrebbe sciolto il ghiaccio che il ragazzino aveva dentro. Non c’era nessuno a cui poter chiedere aiuto. Quella storia era più grande di lui e lui era da solo. Odiò suo padre e maledisse sua madre per averlo condannato a quegli errori e a quella storia.
Arrivò sotto al porticato della verandina disordinata e puzzolente di escrementi del cane. Lo sentì guaire e pensò che fosse rimasto chiuso in casa. L’avrebbe preso in braccio e accarezzato. E sarebbe rimasto con lui tutta la notte a sfogare l’accaduto, magari avrebbe pianto, finalmente, come fanno gli uomini, diversamente da quello che suo padre gli aveva inculcato. La luce della cucina era spenta e pensò che sua madre non fosse rientrata. La finestra coperta da tendine logore non tradiva nessuna cattiva novità e meno male, quella giornata era stata abbastanza crudele. Non fu necessario infilare la chiave nella serratura, la porta si aprì, abbassando la maniglia. Un odore nauseabondo di alcol si soprappose a quello della veranda. Accese la luce. Il tavolo era ancora da sparecchiare, in disordine e c’era nel catino una pila di piatti sporchi e piccoli avanzi di cibo caduti dalla pentola distrattamente. Nulla di pronto era stato messo da parte per lui. Nessun piatto coperto, nessun panino farcito. Victor aveva, a volte, la sensazione di non appartenere a quella famiglia e a quella madre che amava torbidamente, non riuscendo a perdonarne l’incapacità quasi immorale che spesso incrociava la negligenza. Ma quella sera ringraziò il cielo che fosse ubriaca. La trovò sdraiata sul divano totalmente priva di sensi. Non si svegliò quando accese la luce, pigiando l’interruttore vicino alla porta. Provò a chiamarla. Era un istinto tradito dal bisogno di un abbraccio che, quella sera, doveva essere più che avvolgente, soffocante. Era ormai consapevole dell’effetto che il cocktail di liquore e tranquillanti generava nella donna. Uno stato quasi comatoso che ne metteva a serio rischio la vita. Ma non poteva farci nulla. E quella sera era meglio così, era una fortuna che non si riprendesse. Non doveva vedere suo figlio. Lo sguardo smarrito ne avrebbe raccontato l’accaduto. La solitudine era diventata soffocante. E la vita, a quelle condizioni, inaccettabile. Provò ad abbracciare sua madre, sollevandone appena la testa dal bracciolo del divano. Poi la sistemò comoda, perché dormisse, perdendosi in luoghi distanti da quello. Voleva salutarla e, in un certo senso, ringraziarla per quello che aveva fatto e che
non riusciva più a fare. Anche lei era vittima di un destino che mai avrebbe scelto e che le stava stretto. Versò dell’acqua in uno dei bicchieri rimasti ancora puliti sul piano rigato del lavandino, ruotando il rubinetto e ingerì quattro delle pasticche che sua madre teneva su una mensola in cucina. La scatolina era ancor aperta e il lembo di cartoncino ne faceva intravedere il blister vuoto per metà. Fece una doccia veloce prima che l’effetto dei farmaci lo cogliesse in bagno. Poi indossò una tuta bianca con il cappuccio felpato leggermente sgualcito. Non fu necessario rollare della marjuana per dormire: il suo sonnifero abituale da quando era andato via suo padre. Si poggiò sul cuscino, chiuse gli occhi e prese a navigare su una nuvola soffice e leggera. Si perse nell’aria mentre il cane mugolava, avendo poggiato le zampette anteriori sul letto per salire. Forse voleva svegliare il suo piccolo amico perché gli desse da mangiare. Forse aveva capito
 
 
                                    
                                    
                                    