Stramare. Marco Quarin e il silenzio

Stramare. Marco Quarin e il silenzio

Recensione di Martino Ciano. In copertina: “Stramare” di Marco Quarin, Cleup, 2025

La via dell’esilio, l’isolamento volontario, il distacco da ciò che ci ha caratterizzato nel corso della vita: sono questi i segnali di una rivolta contro noi stessi; una sorta di autopunizione che contiene al suo interno già un’assoluzione.

Tommaso Verri, giornalista e scrittore di fama nazionale, ha deciso di passare il resto dei suoi giorni a Stramare, borgo del trevisano in cui la vita scorre a ritmi blandi. Non lo ha fatto per fuggire da qualcosa o da qualcuno, ma per guardare il mondo da una prospettiva nuova, sicuramente solitaria e lontana da ogni influenza.

Non ha avuto un’esistenza semplice. A 76 anni suonati, Verri ha sposato il silenzio, anni prima si è separato dalla moglie e ha interrotto i rapporti con il figlio. Inoltre, sente il peso di aver avuto un padre repubblichino di Salò. Ha anche un’altra macchia: una gamba offesa, lascito di un attentato le cui cause vanno ricercate nelle sue inchieste sugli intrecci tra poteri occulti e politica.

Insomma, di argomenti Quarin ne mette tanti e li dosa sapientemente, con uno stile che ricorda tanto quel Novecento che aveva creato una letteratura di investigazione della società. Verri appare come un personaggio privo di emozioni, quasi sospinto da una accettazione stoica che in alcuni tratti si trasforma in cinismo.

Stramare è testimone del suo passaggio; è la zona franca in cui regna la pace e la sobrietà. È anche un tempio nel quale pregare, in quanto luogo distaccato dalla mondanità. Insomma, è il posto giusto per espiare colpe, ma Verri non sente questa necessità. Più che altro egli constata la fine di ogni cosa, guardando alla vecchiaia come la porta verso l’altrove. Ragion per cui, perché conservare ancora sogni o speranze?

Eppure, il protagonista del romanzo di Quarin non è un pessimista, ma un uomo che riflette, che si rivolge al suo passato con sguardo mite, senza veri e propri rimpianti. A Stramare egli intende che forse il fatidico “senso delle cose” è una banalità, persino la ricerca dei significati è una perdita di tempo. Ma è giusto che si dia senso alle cose, è giusto credere nella logica della causa e dell’effetto, ma è altrettanto importante prepararsi a una cocente delusione, ossia la scoperta di essere in fondo “senza un preciso scopo”.

A Verri non è mancato nulla: l’amore e la fama, il coraggio e le rogne. Ma è riuscito a cambiare il mondo? La sua opera è servita a smascherare qualcosa, oppure tutto è stato un divertente azzardo?

Il tema è allettante. Anche nei precedenti romanzi, Quarin ha sempre demolito le ideologie. Da uomo del Novecento che ha vissuto stagioni importanti e decisive, ha toccato i limiti della politica, nonché gli scontri tra idea e prassi, tra realtà e utopia.

Questa volta però, e questa sensazione me l’ha trasmessa la scrittura telegrafica impiegata in questo romanzo, l’autore friulano si lascia avvolgere da quella dimensione cara a Camus in cui “la rivolta” viene privata del suo valore.

Verri è rimasto solo, senza un amore e con poca voglia di dialogare con gli altri. Stramare è un sepolcro sul quale lui deride le sue spoglie nonostante il carico di malinconia che si porta appresso. Eppure ha una speranza che vale la pena di conservare.

Ho sempre amato gli scrittori marginali, coloro che dai limiti, distanti dalle lotte che nulla hanno a che fare con l’arte e la creatività, rilasciano tramite le parole un profumo di passione che dà ancora un senso all’amore per la “scrittura”.

Quarin firma un’altra opera che sa unire mondi ed epoche; ed è per questo che la sua lettura è uno spiraglio su un “fare letteratura” che ha il sapore della testimonianza, tanto da mettere in luce la fervente adesione dell’autore alla propria concezione di convivenza tra gli uomini.

 

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