Un presente scritto un secolo fa

Un presente scritto un secolo fa

Articolo di Martino Ciano – già pubblicato su Zona di Disagio

Se George Orwell scrivesse oggi il suo 1984 potremmo definirlo un romanzo neorealista. Se Aldous Huxley resuscitasse, saprebbe destreggiarsi meglio di noi nel Nuovo Mondo. Se rileggessimo Fahrenheit 451 di Ray Bradbury potremmo affermare che il suo pompiere-incendiario-di-libri, Montag, è l’azzeccata metafora di un editore moderno che brucia la cultura per dare cenere da sniffare a lettori sempre più assuefatti dalle nuove proposte mainstream…

La società dello spettacolo di Guy Debord, invece, sarebbe un manuale di istruzioni per vivere bene nello show-business quotidiano in cui l’Occidente si è cacciato. Il mondo come palcoscenico, l’immagine come linguaggio e il dionisiaco di Nietzsche appannaggio dei pazzi.

Tutto vero, insomma. I distopici e i nichilisti hanno vinto. Ma ce ne sono stati tanti altri e tra questi voglio soffermarmi sul mio preferito, James Ballard. Con il suo romanzo Crash, uscito nel 1973 e subito inserito tra i romanzetti di serie B dell’epoca, ha detto tutto in 150 pagine. La promiscuità sessuale, la velocità di esecuzione dei sentimenti, la meccanizzazione dell’uomo.

L’uomo-macchina, la penetrazione delle lamiere fumanti nella carne. L’automobile come prolungamento del corpo è uno degli elementi più affascinanti del romanzo. Ballard legge in questo processo i germi dell’autodistruzione umana, ormai incapace di sfruttare l’energia corporea e  sempre pronta a ricorrere a sistemi estremi per esprimere la propria libido. Studioso dei meccanismi sociali ne Regno a venire, Ballard teorizza il ritorno alla xenofobia e introduce l’immagine del Centro Commerciale – Tempio. Luogo in cui la rabbia si placa con gli acquisti e il culto della merce raggiunge il suo massimo splendore.

Ballard è stato anche studioso dello spazio interno e dei meccanismi psicologici che producono nell’uomo pulsioni esternalizzate solo in forma di comportamenti compulsivi. Lo scrittore inglese mostra un uomo perduto, incapace di reagire ma pronto a creare nuovi ovili, come ci spiegherà bene ne Il Condominio.

Ma scomodiamo per un attimo Martin Heidegger, questo mostro sacro, a volte prolisso e lezioso.  Per lui la cura è l’azione e il tempo ne definisce i modi. Il senso del tempo è proprio un altro degli elementi che l’occidente ha perso di vista.

Il kairos dov’è?
Dove abbiamo dimenticato il momento in cui si agisce e si è propiziatori?

Chi ci pone davanti questo problema con i suoi racconti è Borges. Lo scrittore argentino ci racconta di labirinti in cui l’uomo perde se stesso.

Spersonalizzato e senza tempo, tutto e nulla, ovunque e in nessun posto. L’uomo di Borges è il dramma esistenziale di ogni  persona raccontato in tutte le sue manifestazioni. La scrittura del dio, Le rovine circolari, Il miracolo segreto. Basta leggere questi suoi tre racconti per comprendere l’universo di questo autore.

Per Borges la retta era il labirinto perfetto. Ma tanto è limitato l’uomo che si vede sempre chiuso in gabbia e si sente sorvegliato e punito, da forze invisibili. Quella forza che per Michel Foucault era il potere. Il Panopticon, questa prigione che oggi ci ingabbia e ci libera, cosicché l’uomo viva in una costante libertà vigilata. Il sorvegliante è tra noi, vive le nostre esperienze, ci guida, ci educa e infine ci sbrana. Egli è un cattivo maestro perché ci tiene tra le ombre e ce le fa scambiare per immagini nitide, compiute.

Tutto questo ce l’hanno detto la filosofia e l’arte. Da André Gide in poi ci ha pensato la letteratura che continua a metterci in guardia e a profetizzare. Ma per qualcuno con la cultura, e quindi anche con la letteratura, non si mangia. E come dare torto a questo sorvegliante che ci vuole succubi di modelli tecno-lesivi della creatività e dell’intelligenza?

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