Cesare Pavese, Prima che il gallo canti, Einaudi

Cesare Pavese, Prima che il gallo canti, Einaudi

Recensione a cura di Martino Ciano – già pubblicata su Zona di Disagio

La tragedia, la sconfitta, la solitudine dell’uomo davanti alla vita. Prima che il gallo canti non è solo un libro, ma la cronaca di un’anima, il diario di una silenziosa migrazione. Racchiude due racconti, Il carcere del 1938 e La casa in collina del 1948. Due novelle scritte a distanza di anni, ma unite dallo stesso filo conduttore: la memoria.

Cos’è la memoria? È il luogo in cui si imprimono le passioni, le sconfitte e le vittorie di ogni uomo. È la stanza dove il passato viene richiuso, serrato, e lì sbraita, urla, chiede d’essere liberato. Si può fingere di non sentire quei richiami, ma nessuno può eliminarne la presenza. Comunque vada, la memoria muore con noi.

Solo i morti hanno visto la fine della guerra.

Chi ama la letteratura non dovrebbe fare a meno di questo libro, ma soprattutto non dovrebbe lasciarsi guidare dai pregiudizi su Pavese. È stato uno scrittore, un poeta, uno dei pochi liberi pensatori del novecento. Difficile leggerlo senza cadere nella sciatta idea che egli sia stato un pessimista. Sembra incredibile, invece, valutarlo come un esistenzialista che ha descritto, attraverso l’inquietudine, quel bisogno di pace che l’uomo cerca facendosi muto testimone del quotidiano non senso.

Eccoci allora davanti a Stefano e Corrado, gli attori principali di questi due racconti.

Stefano, protagonista de Il carcere, è un confinato. Vive anonimamente in questo paese dove sconta la sua pena. Non ci vengono però spiegati i motivi, anzi, sembra quasi un personaggio kafkiano, finito lì per puro caso e incapace di comprendere la logica del mondo in cui si muove. Pavese si ispira alla sua personale esperienza. Nel 1935, infatti, lo scrittore venne confinato a Brancaleone, in provincia di Reggio Calabria. Su di lui pendeva l’accusa di antifascismo. Ma ciò che scrive non ha i contorni dell’autobiografia, anzi, l’autore non accennerà mai né al contesto politico, né alle condizioni sociali, né alla propria esperienza.

Il carcere che ci viene raccontato è una condizione dell’anima. È luogo di gioie e di dolori, di ricerca, di riappropriazione dell’io, di contemplazione da una vetta privilegiata chiamata solitudine. La prigione in cui si trova Stefano ha muri invisibili e coincidono con i confini del borgo, ma uno solo intimorisce il protagonista: il mare. La grande e invalicabile parete che dà l’illusione della libertà. Ma è nella contemplazione della natura che il protagonista riscopre quel non senso quotidiano della vita. L’uomo passa e lascia tracce che la pioggia del tempo cancella. Di lui rimangono solo fugaci emozioni, vissute in un qui che rimane ancorato solo nella memoria.

 Bestie e uomini hanno la stessa sorte. Citazione in cui riecheggia Qohelet.

Diverso invece il percorso di Corrado, protagonista de La casa in collina. Questa novella è una lucida testimonianza della guerra civile che si scatena all’indomani dell’otto settembre 1943. Ma anche in questo caso, il protagonista è solo spettatore e giammai parte attiva. A far da cornice alla storia, Torino, da cui Corrado fugge per far ritorno a Santo Stefano Belbo. Il borgo tra le colline, rifugio dalle tragedie che la guerra porta con sé.

Anche in questo caso, però, il protagonista assume le sembianze di un personaggio kafkiano. È spettatore di una guerra illogica, ma di cui si sente corresponsabile.

Corresponsabile perché come tutti ha gridato Viva il Duce. Corresponsabile perché anche se contrario al regime non lo ha mai combattuto.

C’è solo una differenza tra Il carcere e La casa in collina. Se nel primo caso siamo davanti a un condannato al confino, nel secondo è il protagonista che si mette in marcia verso il suo carcere. Tornare nel proprio paese, tornare nella casa dove è nato, vuol dire, per lui, tornare nella prigione primordiale in cui la solitudine è ancora una volta l’unico punto di vista dal quale contemplare l’uomo.

La morte e la distruzione incontrate da Corrado lungo il tragitto Torino-Santo Stefano Belbo, lo fanno sentire un indegno sopravvissuto. Al posto del morto potremmo esserci noi, non ci sarebbe differenza e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede conto.

Ma non è solo quello un teatro di guerra, ma la vita intera. Il senso della battaglia però è ignoto. Ora che ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: – Dei caduti cosa facciamo? Perché sono morti? – Io non saprei rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.

 Così termina una pietra miliare che i posteri non devono e non possono dimenticare.

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