Niente di nuovo sul fronte occidentale. Eric Maria Remarque e le “guerre di ieri e di oggi”

Niente di nuovo sul fronte occidentale. Eric Maria Remarque e le “guerre di ieri e di oggi”

Recensione e foto di Marco Ponzi

Di questi tempi è sempre bene fare un ripasso di una certa letteratura; un ripasso che rinfreschi le memorie su ciò che significa essere coinvolti in una guerra. È opportuna, a mio giudizio, anche una riscoperta di quelle che sono le opere che hanno trattato l’argomento in modo profondo e, se vogliamo, anche critico. Certo, oggi, la parola “critica” è sinonimo di prendersi dei rischi, ma accetto la sfida.

Ho colto quindi l’occasione, su una bancarella dell’usato, e ho acquistato questo caposaldo della letteratura del Novecento, ossia “Niente di nuovo sul fronte occidentale” di Eric Maria Remarque.

Si tratta di un libro autobiografico che oramai ha un’età e però, nonostante l’argomento, non si può definire vecchio o fuori tempo; infatti, l’autore racconta la sua esperienza diretta della prima guerra mondiale, vissuta al fronte, in trincea, e non lesina dettagli mantenendo, se posso azzardare il termine, una certa freschezza nell’esposizione. Risulta così molto attuale, dato che le trincee si usano ancora e non sono certamente luoghi ove sognare una vacanza.

Il racconto è vivido, oserei dire purtroppo, perché non risparmia nulla al lettore, né le descrizioni crude (ma educate) dei corpi straziati in tutti i modi dalle bombe, né la paura repressa e combattuta, utile strumento per non farsi sopraffare dal terrore mantenendosi in vita, desiderando di tornare a casa interi.

Non mancano le riflessioni più profonde su cosa significhi condividere uno spazio con i compagni che hanno gli stessi obiettivi: rimanere vivi mentre la morte li sfiora e spesso li colpisce.

Durante i combattimenti sono molti gli interrogativi senza risposta che chi è in prima linea si pone: perché devo ammazzare un nemico che fino a qualche tempo prima era un libero cittadino con un mestiere qualsiasi e non è un soldato di professione? Che senso ha dover sparare e combattere qualcuno perché qualcun altro ha deciso che devo essere io a sacrificarmi per qualche ideale che non condivido nemmeno? Cosa fare mentre assisto al rantolo mortale di un compagno in fin di vita? È meglio dargli il colpo di grazia per non farlo soffrire o attendere che si spenga tra indicibili sofferenze? Cosa è più rispettoso della vita? Ha senso rispettare la vita in queste condizioni? È vita?

Le domande portano altre domande, perché il complesso della vicenda non ha senso: combattere fino allo stremo delle forze, rimanere feriti mentre si attende che qualcuno si arrenda e tornare a casa mutilati o con un bagaglio di ricordi che si vorrebbe lasciare al fronte. Tutte queste riflessioni avvengono mentre i soldati cercano risposte sull’utilità del loro servizio ed è sorprendente notare che abbiano avuto il tempo di soffermarsi su problemi etici in quella condizione.

Ma la guerra non si può dimenticare e il vissuto di chi è in prima linea inevitabilmente si riflette su chi in guerra non ci è stato, ma vi partecipa con l’apprensione o, altre volte, non ha nemmeno il tempo di pensare a chi è sui campi di battaglia, preso da problemi contingenti; i familiari soffrono in modo diverso perché costretti ad accettare un destino ineluttabile che non dipende dalle loro scelte, né da quelle di chi sta al fronte.

Qualcuno muore nell’attesa di veder tornare a casa il proprio figlio, per malattia, per crepacuore e per mille altri motivi, lasciando orfano chi si salva. Il dolore si aggiunge al dolore e la sensazione di aver combattuto per niente pervade gli animi già scossi dall’esperienza sul campo.

I soldati, pur nella concitazione dei combattimenti, durante le fughe e gli assalti, hanno il tempo per riflettere sulla loro condizione senza la possibilità di immaginare un futuro possibile. Si ritrovano a vivere, per forza di cose, alla giornata, e non c’è altra via per sopportare le lunghe giornate delle quali si interrogano, se mai vedranno la fine.

L’aspetto che emerge con forza da questo testo è la disillusione data dal risultato; la società spingeva i giovani ad arruolarsi per senso patriottico e li mandava al macello insistendo sul loro senso di responsabilità, sull’onore.

Tutti principi espressi con veemenza da chi in guerra non ci andava ma si arrogava il diritto di punire le diverse renitenze. Non vedo differenze con quello che accade oggi in altri contesti.

Purtroppo, però, certi valori dichiarati perdono di senso quando ci si trova a correre dei pericoli solo per difendere ideologie a cui si è obbligati a conformarsi e il dilemma deflagra nelle menti delle persone coinvolte direttamente: siamo stati usati? Ne è valsa la pena?  

Spesso, la risposta alla domanda è contraddittoria perché, anche in caso di vittoria, la perdita di una sola vita umana non può giustificare il sacrificio, soprattutto se questa vita è stata illusa e ingannata con false promesse.

Sarebbe dunque utile leggere questo libro come si leggono allo stesso modo le diverse testimonianze dell’Olocausto e di altre tragedie, senza fare distinzione tra vincitori e vinti: sono tutti vittime di una propaganda che promuove sé stessa a spese altrui, e che considera ogni singola vita persa un semplice effetto collaterale della follia collettiva decisa da pochi.

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