Stand by me

Stand by me

Racconto di Renzo Favaron

Erano le 14.00 di un lunedì novembrino e il Tg regionale apriva con la notizia di una giovane coppia che era sparita dopo un litigio. Scosso e con la voce strascicata, davanti al microfono dell’inviato, lo zio della ragazza aveva ricostruito gli ultimi movimenti della nipote; poi aveva fornito i dati dell’auto guidata dal giovane e pregato chi l’avesse vista di contattare le forze dell’ordine.

Due giorni dopo, in apertura dello stesso Tg, si mostrava il corso di un canale e la voce fuori campo della conduttrice che dichiarava: «Ancora nessuna novità dalle ricerche sugli ex fidanzati. I familiari del ragazzo convocati alla stazione dei carabinieri…». Intanto la scomparsa della giovane coppia aveva assunto una risonanza nazionale, tanto da essere collocata in apertura dei principali TG delle reti RAI e Mediaset.

Rolando, ingegnere in pensione e forte lettore di romanzi polar, non aveva mai seguito il programma di Federica Sciarelli, ma quel mercoledì si chiuse in casa e accese il televisore sintonizzandolo su Rai 3. Inutile dire che anche Chi l’ha visto? iniziava la trasmissione con il collegamento dall’abitazione della ragazza, dove c’era un’inviata con il padre, la sorella, il legale della famiglia e altre due persone. Il padre, dopo quattro giorni dalla fuga, si mostrava calmo e fiducioso: «Non può mancarmi e deve essere ancora viva», dichiarava. Dallo studio la conduttrice prendeva la parola e, con voce stentorea, esclamava: «Bisogna che lui capisca che deve fermarsi». Dalla stessa conduttrice si apprendeva che durante la settimana in corso la ragazza doveva laurearsi, per cui era improbabile che si fosse allontanata volontariamente, come per scappare da un destino imposto e triste.

«Che idea ti sei fatta?», domandava al padre l’inviata. Lui, trattenendo le lacrime, rispondeva: «Ho pensato al peggio, perché non c’è una ragione logica per cui succeda una cosa del genere». Escludeva che si trattasse di una fuga d’amore e lui stesso aveva consigliato alla figlia di troncare la relazione. Tra l’altro, non sapeva che era uscita con il ragazzo e ad angosciarlo era la testimonianza di un vicino, il quale, verso le ventitré di sabato, aveva sentito «bisticciare e gridare aiuto da una voce femminile».

Interrompendo il collegamento, dallo studio veniva mostrata la targa dell’auto e si segnalava che il cofano aveva delle ammaccature da grandine. Oltre a ciò, venivano elencati alcuni spostamenti effettuati dall’auto, spostamenti piuttosto circoscritti e risalenti alle ore immediatamente successive alla fuga. Interpellato a questo proposito dalla conduttrice, il legale della famiglia dichiarava che dall’ultimo rilevamento erano passati quattro giorni e si augurava un risultato a breve.

Secondo lui, inoltre, l’allontanamento non era volontario e aggiungeva che «il ragazzo non è un trafficante di droga», cioè in grado di rendersi irreperibile. (In merito a quest’ultimo punto, Rolando aveva letto un’intervista in cui lo si descriveva come frequentatore abituale della montagna. Non solo: si diceva ‒ anche ‒ che aveva partecipato a un corso survival. In altre parole, non era così impreparato a sapersela cavare in casi imprevisti).

La trasmissione proseguiva con l’intervista alla sorella ‒ teneva in una mano dei cartoncini illustrati e, riferendosi all’ex fidanzato, riconosceva apertamente che non le piaceva. Soprattutto nelle ultime settimane, continuava, era appiccicoso e si mostrava a bella posta triste per manipolare la sorella. In buona sostanza, non lo considerava un ragazzo equilibrato, ma tormentato dalla gelosia ed esasperatamente insofferente rispetto al fatto che la sorella avesse propri interessi e amicizie.

Dopo questo intervento, dallo studio si rinnovava l’appello al ragazzo di fermarsi e poi venivano mostrati i genitori di quest’ultimo. Erano sommersi dai microfoni, visibilmente imbarazzati e a disagio. La madre descriveva il figlio dettagliatamente sia nei connotati salienti (statura capelli occhi) sia nei capi di abbigliamento indossati e aggiungeva che era tranquillo l’ultima volta che lo aveva visto. Ammesso che lo fosse, un’altra inviata del programma aveva intervistato un amico e dalla sua voce si apprendeva che l’ex fidanzato era tutt’altro che sereno. Anzi, «non usciva di casa e aveva il morale a terra».

In coda al programma, veniva infine trasmessa un’intervista alla zia della ragazza, la quale dichiarava che il giorno successivo alla scomparsa, insieme al fratello, doveva andare a pranzo da lei. Questa testimonianza, aggiunta a quelle raccolte durante la trasmissione, rinforzava il sospetto che non si era in presenza di un semplice o spontaneo allontanamento, ma di un sequestro.

A mezzanotte, l’ingegnere in pensione aveva spento il televisore. Quello che aveva sentito, non prometteva niente di buono. Comunque, tutto era in certa misura ancora in sospeso. Prima di coricarsi, aveva riletto ‒ dalla prima all’ultima pagina – Un gioco da bambini. Il libro di J.G. Ballard lo aveva turbato. Nel libro, a compiere i crimini sono dodici adolescenti e i loro genitori, tutti membri della high society, le vittime.

L’ingegnere in pensione si era più volte riconosciuto nella storia narrata e, prima di chiudere Un gioco da bambini, aveva preso una matita e sottolineato: «Quei ragazzi avevano una disperata fame di emozioni genuine, avevano bisogno di genitori che ogni tanto li disapprovassero, che si irritassero e si spazientissero, o persino che non riuscissero a capirli. Avevano bisogno di genitori che non s’impicciassero di tutto quel che facevano, che non temevano di mostrarsi nervosi o seccati, e che non pretendessero di amministrare ogni minuto della loro vita con la saggezza di Salomone».

Più che la descrizione degli omicidi, per quanto brutali, erano state queste righe a colpirlo nel profondo. L’indomani, bevuta una tazza di caffè e fumata una sigaretta, Rolando aveva pulito la lettiera della gatta. Da quando viveva da solo, Nerina era la sua principale compagnia. La gatta aveva il pelo bianco ma, oltre a essere spaurita e affamata, il giorno in cui l’aveva adottata, strappandola da una morte certa, gli aveva ricordato Calimero, dal momento che il pelo era più scuro che chiaro. Già, era stata abbandonata, come lo era stato lui, del resto.

Mancavano 15 minuti alle dieci e, procrastinando il momento della passeggiata mattutina, aveva acceso il televisore. Non aveva ascoltato nulla di veramente interessante, a parte venire a sapere che la ragazza, dopo la discussione della tesi di laurea, avrebbe frequentato un corso di illustrazione a Reggio Emilia. (Al microfono dell’inviata di Chi l’ha visto? la sorella aveva dichiarato che uno dei suoi sogni ‒ s’intende, della ragazza scomparsa ‒ era diventare illustratrice di libri per bambini). Poteva sembrare un dettaglio non importante, ma rivelava che lei era un passo avanti e insieme che si stava ulteriormente ‒ per non dire irreversibilmente ‒ liberando da ogni pastoia che la intralciava e che ormai non sopportava più.

Alle undici era uscito, rientrando alle 14.00. Nerina non era calma, così l’aveva pettinata fino a farla sbadigliare. Poi aveva bevuto un bicchiere di latte ed era andato a stendersi sul divano. Voleva guardare il Tg regionale, ma aveva chiuso gli occhi e si era addormentato.

Al risveglio, la gatta gli faceva le fusa contro la gola. Aveva dormito più di quattro ore e la Tv, rimasta accesa, trasmetteva l’edizione serale del Tg regionale.
Dopo giorni in cui si era saputo poco delle ricerche e indagini in corso, il Tg apriva con l’annuncio che a Fossò, paese dell’entroterra veneziano, la telecamera di un’azienda «avrebbe visto il ragazzo aggredire l’ex fidanzata e poi caricarla sanguinante sulla sua auto». L’autore del servizio aggiungeva «che il filmato mostrerebbe la ragazza ferita che cerca di fuggire, lui che la rincorre e la colpisce di nuovo con violenza, facendola cadere e lasciandola apparentemente esanime a terra». Più tardi, nel Tg3 notte, un inviato dava notizia che il ragazzo era stato iscritto nel registro degli indagati.

Per quanto si fosse scritto e parlato del caso, all’ingegnere in pensione sembrava che la famiglia dell’ex fidanzato evitasse di esporsi. Nel Tg regionale era apparsa solo il giorno in cui si era mostrata con la famiglia della ragazza e poi era del tutto scomparsa. Dopo alcune ricerche, Rolando aveva trovato un’intervista particolarmente interessante. Il figlio, secondo il padre, a scuola non aveva mai avuto problemi riguardo al rendimento e neppure riguardo al comportamento. Era «un ragazzo perfetto. Buono e molto tranquillo. La ragazza ‒ dichiarava ‒ «veniva spesso e, a volte, si fermava da noi. Sembravano una coppia perfetta, ma la scorsa estate si sono lasciati».

Lui ricordava che, successivamente all’addio, il ragazzo andava ripetendo: «Adesso mi ammazzo, mi ammazzo, io non posso stare senza di lei». Preoccupata, «la madre gli aveva dato un suggerimento: “Perché non vai dallo psicologo?”. Lui non credeva, però, che si fosse rivolto al Servizio di Assistenza Psicologica dell’ateneo di Padova.

Il giorno dopo, l’ingegnere in pensione si era recato al cimitero, dove erano tumulati i suoi genitori. Era originario di Cona, ma da molti anni viveva a Cologna Veneta, un paese in provincia di Verona. Al ritorno, si era fermato a Torreglia e qui, mentre pranzava, aveva udito un avventore affermare che conosceva il ragazzo. Forse era un vicino di casa, perché aveva aggiunto di averlo visto lasciarsi andare ad alcuni scatti di violenza, come prendere a calci un lampioncino da giardino o frantumare una lastra in marmo.

Fuori dalla trattoria, Rolando aveva fumato una sigaretta e di lì a poco era ripartito. Mentre guidava, ascoltando Tom Waits sullo stereo della macchina, aveva ripensato a quando era stato accoltellato. Era un episodio della sua vita che lo aveva accompagnato per alcuni anni, finché non aveva scordato quasi tutti i dettagli e aveva continuato a muoversi con un vago senso di ciò che era stato. Era successo a Porto Tolle, vicino a Porto Viro, in un paese sperduto del Polesine. L’uomo che lo aveva pugnalato, ricordava che aveva gli occhi color agata e, prima che si rendesse conto di essere stato accoltellato, la lama era entrata e uscita in un amen. Si era immersa tra le costole fragili, mentre lui indietreggiava di qualche passo e poi era crollato a terra, e aveva lanciato un urlo di dolore. Non ricordava molto altro, né voleva ricordarlo.

Alle 19.00, come ormai faceva da giorni, aveva acceso il televisore. Mentre andava a sedersi sul divano, il Tg regionale dava notizia del ritrovamento del corpo della ragazza. Dopo averlo lasciato cadere da un dirupo, l’ex fidanzato lo aveva nascosto in un anfratto roccioso. Forse per ritardarne la scoperta, il corpo era stato coperto da alcuni rotoli di sacchi neri. La sorella, appresa la notizia, aveva scritto su Instagram: «È stato il vostro bravo ragazzo».

Basta. Per quel giorno era a posto. Aveva spento il televisore e acceso la radio. Parlavano del corpo rinvenuto. Aveva spento anche la radio e cercato di pensare ad altre cose. Si sentiva sull’orlo di qualcosa che riguardava la vita dei sensi, ma che non era attrezzato ad affrontare o abbastanza interessato per concentrarcisi. Diciamo che si era impigrito e, mentre si domandava se non era il caso di sentire un dottore, aveva rivisto sua nonna che raccontava una storia accoccolata sulla sedia a dondolo, con la mano che stringeva un ago.

Nel 1944, sospettata di favorire i partigiani, era stata incarcerata a Palazzo Giusti. Lì, oltre a essere interrogata, un aguzzino della Banda Carità l’aveva torturata con la fiamma di una candela accesa sotto i piedi per farle dire dove si trovava suo padre. Naturalmente, non aveva cantato e dopo un mese era stata liberata. «Non dobbiamo dimenticare quello che di buono c’è in noi, anzi», ricordava che gli aveva detto. «Dovremmo combattere il male anche se lassù non c’è nessuno».

Dai quindici ai venticinque anni, l’ingegnere in pensione non si era limitato a studiare, ma aveva occupato la scuola che frequentava, ciclostilato volantini di protesta e partecipato a sit-in e blocchi stradali. In poche parole, era stato forte come un cavallo e aveva preso sul serio la storia raccontata da sua nonna.

Chissà perché, l’aveva dimenticata. Non solo: ormai si era ridotto a pensare pochissime cose e non faceva altro che guardare la Tv e prendere le sue medicine.
Si era iscritto a Facebook, è vero, ma aveva pochi amici e lo usava raramente. Tutt’al più leggeva qualche post e si soffermava ad osservare qualche immagine che valorizzava un libro o un film. Inutile dire che tra gli amici di Facebook c’erano i suoi figli ed era stato proprio da un post della figlia che aveva appreso che la fuga dell’ex fidanzato era finita: «Era ora», aveva scritto. «Arrestato in Germania, nei pressi di Lipsia, il ventiduenne padovano».

Da quando si era separato, i rapporti con Francesca si erano via via diradati e ormai la vedeva solo al sabato o nei giorni in cui tornava da Bologna, dove studiava. Adesso era a casa e, dato che abitava a un tiro di schioppo, Rolando aveva infilato le scarpe ed era uscito. Luminose tensioni laceravano, al suo avvicinarsi, lo spazio massificato intorno a fatiscenti mura; arcigne torri da antichi ingegneri veneziani spezzavano il borgo, i suoi orizzonti e i suoi climi, e nel gelo l’aria incorporea si rapprendeva in grandi architetture fredde: su quel paesaggio arrancava, con una mano intorno al cuore, occhi di pasta vitrea e l’intelligenza di un dannato dell’Antinferno.

Inutilmente i quieti campanili ammiccavano; solo il profilo della Rocca Scaligera che sfidava la violenza del cielo trovava un’eco nel suo cervello. Aveva suonato il campanello e atteso un paio di minuti. Niente. Aveva suonato di nuovo e questa volta, prima ancora che aprisse bocca, si era sentito dire:

«Francesca è andata al cinema».
«Per la precisione?» aveva chiesto, e la ex moglie aveva digrignato: «Al Centrale».

Si era stretto nelle spalle e poi, arrivato davanti al cinema, aveva inviato alla figlia un messaggio con il telefonino:

«Com’è il film?».
«Così così», aveva risposto lei. «Hai letto il mio post?».
Lui aveva riflettuto qualche secondo prima di scrivere:
«Sì. Gli auguro di campare 100 anni, così da capire quello ha fatto».

Mancava un quarto alle ventitré. Non c’era in giro un’anima viva, Piazza Corte Palazzo era deserta, così pure via XX Marzo. Niente si muoveva nei campi gessosi. L’aria era pungente e a un tratto apparve la luna, si aprì il cielo e le torri rosate svettarono. Aveva nelle orecchie, nella gola qualcosa di lagnoso, pieno di gemiti e d’indicibile dolcezza, che fa salire da bocche notturne, soggiogate e a un tempo libere, le parole stand by me nei gospel. Di colpo, mentre tornava a casa, si era fermato e aveva digitato:

«Sei andata al cinema da sola?».
«Tranquillo», aveva risposto Francesca. «Sono insieme a un’amica».

Tranquillo? Facile a dirsi. Anzi, bisognava fare qualcosa e non aspettare di fare tutti una brutta fine, genitori e figli. A spaventarlo non era solo quello che poteva succedergli e Rolando si era convinto che non si poteva più starsene zitti e guardare dove tirava il vento. No, era tempo di ricalcare le orme di quando partecipava alle marce di protesta. E così, guardandosi indietro ma pensando anche al futuro, aveva comprato un cartoncino A3 colorato. Era il 23 di novembre e il giorno dopo l’Università di Padova avrebbe dedicato alla ragazza una panchina rossa accanto alla facoltà di ingegneria. Si era spremuto a lungo le meningi, senza trovare uno slogan da trascrivere nel cartoncino. Alla fine, sul punto di lasciar perdere, l’aveva trovato: «Io sono qui». Un lontano, assopito ricordo a un tratto si era affacciato alla coscienza.

L’estate dopo la maturità, insieme a un amico, Rolando aveva compiuto un viaggio mitico nel Nordamerica. I primi spinelli, i tatuaggi e le sbronze di birra al rooftop bar. Nel corso del viaggio, dopo le città metropolitane, i due compagni avevano visitato alcune riserve indiane degli stati settentrionali. A Walle, nel South Dakota, si erano fermati una settimana e qui avevano stretto amicizia con un nativo americano. Si chiamava Shamengwa ed era un indiano Lakota. Una sera, parlando della tribù da cui discendeva, Shamengwa aveva raccontato una storia al limite dell’incredibile, tanto da lasciare un’impronta indelebile nella mente di Rolando.

Eccola, in estrema sintesi.

Mankato (Minnesota), 1862. Sistemati su un unico patibolo ci sono quaranta indiani Sioux, condannati per avere massacrato un numero imprecisato di uomini bianchi. Ebbene, al momento di essere impiccati, dal primo all’ultimo gridarono: «Io sono qui». Già, gridarono queste tre parole come se dovessero riparare ogni cosa. Come se rendessero l’esecuzione sopportabile e meno orribile. Come se desse loro il coraggio e la forza.
Dunque, per il bene che questo potesse fare, l’indomani avrebbe partecipato all’iniziativa promossa dall’Università patavina.
Sì, avrebbe gridato: «Io sono qui».

Era arrivato nel cortile del Dipartimento di Ingegneria alle undici e un quarto. Si aspettava di trovare studenti infervorati e di sentirli urlare slogan di protesta o qualcosa del genere. Invece erano composti e silenziosi, come se partecipassero a un rito funebre. Dio, quanta acqua sotto i ponti era passata da quando frequentava l’università e gridava: «Cambiamo la vita, prima che la vita cambi noi».

Comunque, non aveva mai sopportato i movimenti violenti, tanto che anche in quel momento non avrebbe sopportato che qualcuno disturbasse l’inaugurazione della panchina rossa in memoria della ragazza. No, la cosa gli avrebbe dato un po’ ai nervi e come per dimostrarlo aveva dato uno strattone secco alla tesa del cappello floscio, tirandoselo più giù sulla fronte mentre si dirigeva a grandi passi al punto di ritrovo.

Cionondimeno, si sentiva impreparato quando la rettrice del Bo aveva cominciato a parlare. Si udiva solo la sua voce, a tratti disturbata dal rumore del traffico e da nient’altro. Che cosa diceva? Rolando non riusciva ad afferrare le parole. Per un attimo aveva avuto una sensazione di assenza: la sua assenza. Si vergognava ad ammetterlo, ma tutte le cose produttive che aveva fatto venivano da questa sensazione. E così, quando aveva preso la parola il padre della ragazza uccisa, si era riscosso e aveva sfilato il cartoncino piegato in due sotto l’ascella. Poi, dopo averlo aperto, era arretrato d’un passo e lo aveva sollevato con le mani tremanti, con il viso tirato ma dolce, con la paura di sbagliare qualcosa…

Di lì a poco, invece, si era avvicinata una ragazza il cui abbigliamento ricordava a Rolando le studentesse che frequentavano le aule universitarie negli anni ’70. Indossava un eskimo più vecchio di lei e, secca, gli aveva detto: «Meglio tardi che mai».

Lui non aveva ribattuto. Si era limitato ad annuire e aveva piegato la bocca in un lieve sorriso. Gli sembrava di essere tornato indietro di 35 anni. Lei aveva un palloncino bianco e uno rosso e tutt’e due avevano riso e li avevano salutati con la mano quando si erano sollevati nel grigio cielo autunnale. Poi la ragazza era sparita tra la folla e lui aveva fatto il suo viaggio di ritorno attraverso la Pianura Padana, verso il nord-ovest.

Forse perché era stanco, o chissà perché, già le ultime ore si allontanavano. Sembravano meno urgenti, un po’ surreali. Ed ecco, era arrivato. Dio che giornata ‒ aveva bevuto un caffè al bar della stazione e poi si era incamminato verso casa. Solo pochi minuti lo separavano da una doccia calda. Ne sarebbe uscito ritemprato e avrebbe fumato una sigaretta. Gli sembrava già di vedersi.

In questo stato d’animo, era entrato in casa. Subito aveva inghiottito amaro: Nerina si era mangiata i fiori della pianta di ciclamino. Pazienza. Aveva voluto la bicicletta e adesso non poteva biasimarla. Anzi, l’aveva pettinata e rifocillata con il suo snack preferito. Dopodiché, prima di fare la doccia, si era seduto nel bow-window e poi, mentre Nerina gli si strusciava intorno alle gambe, aveva inviato alla figlia un messaggio, digitando: «Fre, io sono qui».

Chissà se avrebbe risposto. Comunque, aveva atteso qualche secondo e sul display del telefonino era apparso: «Anch’io».

Gli mancava sua figlia, e aveva cercato di trattenere le lacrime, ma non ci era riuscito e il cuore aveva cominciato a battere forte, come quando non viveva da solo e un rumore lo svegliava nel buio e lui aspettava di sentirlo un’altra volta: il rumore di qualcuno che gli era familiare e che più di adesso faceva parte della sua vita.

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