La Signorina Maria. Antonio Danise e le origini di un’ossessione

La Signorina Maria. Antonio Danise e le origini di un’ossessione

Recensione di Martino Ciano. In copertina: “La Signorina Maria” di Antonio Danise, Porto Seguro, 2021

Un creatore di storie, anzi un assemblatore di racconti che si intrecciano l’uno con l’altro senza trovare mai una fine, una collocazione nel tempo. Non c’è un inizio o una conclusione, un po’ come le ossessioni, la cui origine resta misteriosa tanto da farle sembrare innate, proprio perché si manifestano sempre e ovunque, in maniera inspiegabile.

Questa è la storia dell’antiromanzo di Antonio Danise. “Anti”, perché non rispetta nessuna delle regole che il decalogo, creato da non si sa chi, innalza a insindacabili strumenti di valutazione per discernere “arte vera da vero-altro“. In “La Signorina Maria”, il protagonista, un cancelliere di un tribunale, è solo ossessionato dalla necessità di scrivere, da un bisogno impellente che lasci traccia di tutte queste storie giudiziarie.

Racconti veri, che recupera dai verbali delle udienze che egli stesso ha trascritto. E proprio tra questi appunti, che non sono solo burocratiche acrobazie attraverso le quali si cercano di aggirare gli ostacoli legislativi, spunta lei, la Signorina Maria, manifestazione della libido o forse della gelosia, visto che un accanito senso della giustizia è, per Freud, sublimazione della gelosia.

E questa ossessione di carne e di ossa, di spirito e di sessualità inappagata è il “motore immobile” che genera una visione compulsiva, che l’autore, attraverso il suo personaggio, né frena né riesce a gestire. Lascia che tutto fluisca; impone che l’ossessione sia sempre lì. Anche se questo torrente di parole dovesse spazientire il lettore, il cancelliere non potrebbe arrestarlo. Lo confessa dalle prime pagine: lui deve andare fino in fondo, lui deve dare a questa storia una possibilità. Se si fermasse, questa forza che lo obbliga a scrivere potrebbe riversarsi contro qualcun altro o contro di lui.

Potremmo quindi accostare questo romanzo a  ciò che Bernhard racconta in “La Fornace”. Anche nell’opera dell’autore austriaco, il protagonista è ossessionato dal bisogno di mettere su carta il proprio saggio. Il problema è che lui non riesce a scriverlo mentre, nel libro di Danise, il cancelliere non si lascia prendere in giro dal timore di comporre qualcosa di illogico, ma si abbandona alle parole.

“La signorina Maria” è pertanto la testimonianza di come la scrittura non abbia nulla di “sentimentale”, ma che sia solo un crudo atto di concepimento che viene quasi sempre sostenuto da forze celate nell’animo. Scrivere non è “portare a compimento”, bensì costante spoliazione. Anche se frutto della sublimazione, la scrittura parla di noi, è guidata dalla nostra irrazionalità, è la prova più ampia dell’esistenza di una radicale contraddizione che alberga nella nostra coscienza, ossia “essere e non essere nello stesso momento”.

Danise mette in mostra tutto questo; addirittura, il suo protagonista chiede scusa al lettore se lo sta annoiando, e lo fa proprio nel momento in cui non ce ne sarebbe bisogno; così come preannuncia che è tempo di fare accadere qualcosa, quando invece il colpo di scena si è già manifestato. Così facendo, il dialogo con il lettore non è pacifico, ma disturbante come lo è la Signorina Maria, che appare e scompare, che distrugge e ricostruisce, che dà speranza e tormento, che non vuole lasciare in pace nessuno, neanche noi.

A Danise i complimenti per un’opera coraggiosa, in cui a vincere è la scrittura nelle sue mille sfaccettature, ognuna con una voce diversa.

 

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