Elogio dell’algoritmo. Una preghiera social
Articolo e foto di Martino Ciano
Ero sorretto dalla compulsione dell’idioma, e come un idiota mi muovevo tra le pagine dei libri, sbatacchiando la testa come un cervo che si scorna con un suo simile. E questa lotta con me stesso, mentre mi riempivo gli occhi di sillabe e le orecchie di magmatico silenzio, eruttava lontano da me, contro un uomo vestito di solitudine.
Chi siete voi per dirmi che sono solo, incapace di regolare il traffico emozionale, manco fossi un semaforo. Mi diranno alcuni ironici, pedanti, adulatori del bene e del male, che conviene dichiararsi dapprima innocenti, poi sedotti e abbandonati, infine parzialmente logorati dal ritmo della quotidianità; solo così si può avere in cambio un certo numero di estimatori. Ci vogliono parole che richiamino commiserazione per lasciarsi ingannare dalle buone intenzioni di chi domani, al massimo dopodomani, si dimenticherà di te e del resto.
Passa la “cura virtuale”, poco virtuosa è la resa; mai arrendersi, ci pensiamo noi, virtualmente spossati e largamente demenziali. Il processo dell’algoritmo è l’unica cosa sana, capace di regolare la volontà di ricerca e la stitichezza di novità. L’algoritmo ti sente, ti annusa, ti gusta, ti scruta dentro. Le tue ricerche sono le sue; le domande sono reciproche e ripetute all’infinito. L’algoritmo contiene anche le tue rivendicazioni.
Un tempo si diceva che “fosse bello camminare in una valle verde”; un tempo questa sarebbe stata una pubblicità occulta a un marchio prestigioso di calzature. Lo è anche oggi, forse; ci penserà l’algoritmo a svelarlo e a portarmi in giro per campi virtuali, tra spighe di grano sfarfallanti e colori shocking.
Intanto, mi godo il burnout della lingua salvata mentre svolgo piccoli esercizi di ammirazione.