Diario di una prof. Una questione di sedie

Diario di una prof. Una questione di sedie

Racconto e foto di copertina di Daniela Grandinetti

8 gennaio di un anno qualsiasi

Ieri sera leggevo la recensione di un libro appena uscito scritto da un’insegnante fresca di pensione la quale, come atto d’amore per la sua professione, ha raccolto e pubblicato lettere e biglietti dei suoi allievi raccolti nel corso della sua carriera.

Qualche anno fa avevo avuto la stessa idea, ma poi – per quanto l’intento fosse di parlare di quanto sia cambiata la professione dell’insegnante – ci sono state motivazioni che mi hanno fatto desistere, tra queste il rischio oggettivo di lasciarsi andare a una sorta di narcisismo auto-glorificante.

La bellezza di gesti che attestano la stima e l’affetto è la più alta ricompensa al nostro quotidiano impegno, per il resto molto facilmente disprezzato, e dall’esterno non è facilmente valutabile (anche se è ormai prossima l’era della valutazione, ma soltanto per quanto “produrremo”, non certo per come e per quanto “incideremo” sulla preparazione dei cittadini futuri).

Mi viene in mente che molti anni fa insegnavo in una quinta con la quale eravamo stati insieme per cinque anni, dunque un gruppo di ragazzi e ragazze che avevo visto crescere.

Il mese di maggio dell’ultimo anno (sul finire dell’anno scolastico e in prossimità degli esami di maturità) io – ebbene sì – li ho abbandonati. È stata un’uscita di scena molto teatrale: nessuno sapeva che sarei partita, me ne sono andata per tre mesi in America. A dire il vero quando sono partita non ero neanche convinta sarei tornata.

Alla mia classe lasciai un biglietto in bianco, dicendo soltanto che il giorno dopo avrebbero capito “perché“. Quel foglio era bianco perché ciascuno ci scrivesse un desiderio per il futuro, quello sarebbe stato il mio augurio: che ciascuno scegliesse il proprio e non lasciassero scegliere altri per sé stessi. Mai.

Non ho avuto rimorsi, sapevo che erano ragazzi in gamba, ormai perfettamente in grado di cavarsela, e così è stato. Molti di loro hanno superato l’esame con risultati brillanti. La cosa più buffa è stata che tra tutti coloro che sono rimasti senza fiato per quella mia partenza segreta e improvvisa – amici, parenti, conoscenti – quelli che hanno dimostrato di “capire” sono stati proprio loro, i miei ragazzi, che mai, neanche un attimo ce l’hanno avuta con me. Anzi, ne è nata una corrispondenza fitta e costante, perfino qualche telefonata intercontinentale. È stato soprattutto in quel periodo che ho accumulato messaggi che da soli mi sarebbero bastati a mandare a quel paese qualsiasi ministro e suo funzionario che, invece, si inventano come farti passare la voglia di insegnare.

Se mi fermo a pensare, mi viene in mente che quasi tutti i libri che raccontano la scuola, la raccontano dal punto di vista degli insegnanti, mai dei ragazzi. Io invece è l’unica energia che riconosco in un mondo scolastico di contraddizioni e delusioni, l’unica che ricevo quotidianamente e mi dà una spinta.

Incontro… l’etimologia di incontro rimanda a un’idea di andare addosso, contro. È solo così che si fa il botto, quando le energie si scontrano, altrimenti è aria fritta, acqua calda che scivola, pane insipido.

Ok… ammetto, mi sono fatta trascinare e mi sono persa. Ecco il rischio di autocompiacimento di cui parlavo prima.

In effetti in questa pagina del diario oggi volevo parlare di tutt’altra cosa. Volevo parlare di sedie. Sì di sedie. Nel senso che avendo abbandonato l’idea della raccolta delle missive (peraltro a quanto sembra c’ha già pensato qualcun altro) mi sono andata convincendo che è di sedie che devo parlare. Potessi, mi piacerebbe fare un viaggio da nord a sud e raccontare la scuola raccogliendo fotografie di sedie.

A ben pensarci, infatti, mentre sta cadendo l’ondata di osanna della scuola digitale e si cominciano a leggere i pareri favorevoli e contrari, mentre si parla di tablet e non più di libri, mentre ci sono  diffuse e antiche lastre di ardesia che persistono, ci sono sedie rotte, sghembe, screpolate, erose, ancora molto diffuse. E per quante sale-insegnanti abbia visto in questi anni, di solito quello è il luogo dove spesso finiscono gli oggetti un attimo prima della discarica.

Le sedie sono perfette per una narrazione, anche perché, ora che ci penso… non vorrei dirlo, da dove (ci) prendono le sedie? Beh, ditelo voi.

Nota bene: l’idea delle sedie è mia, quindi se mai doveste leggere in futuro qualcosa che racconti la scuola in ottanta sedie, sarete testimoni che l’idea è stata partorita qui.

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