Il martire gentile

Il martire gentile

Racconto e foto di Adalgisa Giannella

Carminiello scese dal letto senza infilarsi le ciabatte. Quel letto traballante e arruvutato di sudore dall’estate cocente 1975 gli aveva consegnato una notte insonne e piena di incubi e se lo sentiva stretto e malsano. Il fresco del pavimento ci diede una scossa di contentezza.

Il talamo suo e di Lella era accostato alla parete di fronte alla tavola da pranzo con quattro sedie impagliate che all’occorrenza ne diventavano dodici, quando a giugno arrivavano prima la famiglia di Carmela, la terza figlia, con il marito Mario il finanziere, tre figli maschi e tre femmine, uno chiù bell e n’ato, e una settimana dopo, partita Carmela, arrivava Rosaria, la più grande, con il marito Giuseppe il finanziere, quattro figli maschi e due femmine, uno chiù bell e n’ato.

Per le carriere dei mariti ce le aveva al nord le figlie sue preferite e lo visitavano solo d’estate per qualche giorno prima di andarsene in Cilento, dai suoceri, a passare le vacanze chiù belle.

In casa ci vivevano pure i figli suoi, quelli ancora non maritati: Enzo, Tonino e Lina. Come facesse Lella a farceli entrare tutti in sessantacinque metri quadri di casa, non interessava a lui che libero, voleva solo stu liett che s’era accattato grazie a Enzo il figlio, con la smania re’ cos antiche.

Un letto in ferro battuto, con l’immagine sacra sulla spalliera di una santa che neanche conosceva, che però li fortunava perché dopo la guerra avevano avuto altri sette figli, uno chiù bell e n’ato, che mò stavano felici e sistemati grazie a mamma e papà che c’avevano regalato a tutti dote, avvenire e cristianità.

C’era solo un gradino da scendere da quella casa per stare all’aria aperta, tra i gas di scarico della fabbrica del ferro e le macchine, sopra a un marciapiede sgarrupato che di sera accoglieva loro e tutto il rione sulle seggiole portate da casa, messe in fila per il rituale del caffè ra nuttata, tra chiacchiere, risate e qualche bisticcio.

Le zoccole camminavano sui muri e si infilavano nei buchi lasciati dai bombardamenti, ma loro c’erano abituati dalla guerra ai topi, che sicuramente erano stati più amici degli stranieri che bombardavano Napoli ogni benedetto giorno costringendoli a rintanarsi nei rifugi con addosso il terrore che la fine sarebbe stata buio, silenzio e soffocamento: la peggiore.

Solo là sotto Carminiello si metteva a pregare la Madonna del Carmine e San Gennaro, che lui poteva pure morire ma i tre figli no, quelli non li doveva toccare nessuno. Ci aveva gettato il sangue, durante e dopo la guerra, per la famiglia e quella città che faceva invidia a tutti per la bellezza, il cibo, l’allegria, i colori.

Ci sovvenne il ricordo di come era stata fatta a pezzi, di come pensasse che non ce l’avrebbe fatta più a sorridere. Era taciturna e spaventata come loro e a Carminiello vederla così ci ricordava la prigione dove con un chiodo si era fatto tatuare sul braccio A morte le spie perché Nanni lo scorticato lo aveva tradito.

L’amico che teneva come un fratello ci aveva tolto tutto. Famiglia, onore e salute, per salvare la sua di famiglia davanti alla polizia a caccia di infedeli. La galera ti fa delinquente pure se non lo sei.

La fame che il pane ammuffiato non calmava, le botte prese dalle guardie perché Carminiello voleva il re e no Mussolini che li aveva venduti a Hitlerdio che s’addivertiva a farli sparire perché erano guasti e non ci dovevano stare al mondo, i compagni morti in cella senza spiegazioni avvolti nei sacchi e portati via come spazzatura, lui tutti questi drammi non se li scordava, specialmente la ferocia dei camorristi che per due sigarette, lo avevano fatto violentare nei cessi maleodoranti, togliendogli rispettabilità e masculeria in solo mezzora.

Che inferno aveva patito per Napoli sua! Quando finivano i bombardamenti e il sole sorgeva sulla città, il Vesuvio sorrideva come a dire… da Pompei in poi mi farò perdonare, nun va pigliate. Sopportate ancora nu poco. Finirà sta guerra!

Sicché quando arrivarono gli Americani che si diceva li avessero liberati, Carminiello non si fece il segno della croce come i compaesani e non raccolse la cioccolata che lanciavano dalle jeep a loro come fossero cani arrugnati, ma si mise a singhiozzare perché il re se ne era andato in Portogallo in esilio e lui non ci poteva più fare niente per il re.

Gli amici non ne dovevano parlare male se non volevano che li allontanasse, ma dopo la guerra nessuno voleva fare male, sembravano tutti rimbambiti perché quando si incontravano, si abbracciavano e si baciavano sulle guance come si fa coi parenti pure se non si conoscevano. La caffettiera era sempre pronta sui fornelli per chiunque entrasse in casa e ci si raccontava come impazziti ra fortuna d’essere vivi, che c’era stato l’inferno ma Napoli ancora una volta stava risorgendo e diventava chiù bell e prima.

Lella aveva allestito una pizzeria davanti casa, in strada. Stava tutta notte a impastare dentro a un contenitore di legno che pareva un tavuto, una bara. Alle tre si addormentava sopra la seggiola di legno in cucina e alle otto in punto arrivava Peppino u furnar e ci prendeva sessanta pizze da cucinare nel forno a legna.

Le altre quaranta Lella le friggeva in un enorme calderone fuori casa e le farciva con mozzarella e pummarola fresca, nu poco d’origano. A mezzogiorno in punto la strada s’arruvutava. Cento operai delle fabbriche vicine con la fiaschetta di vino sotto il braccio, s’accattavano ogni pizza e Carminiello guardava la moglie come fosse na santa perché lui portava poche lire dal lavoro al porto dove verniciava le facciate delle navi e lei manteneva lui e la famiglia con la pizzeria e dopo quella fatica lo sorrideva pure tutto il giorno.

Non ce lo aveva raccontato del carcere, solo che c’era entrato per motivi politici, ma liberato da là ci aveva fatto altri sette figli e tutti in salute per non uscire di capo e finire come Vicienzo, allo Psichiatrico, ca cammisa e forza. Nel carcere s’era fatto sicco sicco e mò, pure se mangiava tanto, non riprendeva e allora per compensare si faceva la barba tutti i giorni e metteva litri di colonia che i nipoti scappavano, tanto puzzava.

Però quando passi una guerra, per quanto ti dai da fare, il dolore è troppo e non ce la fai a guarire. Così Carminiello dopo l’operazione alla cataratta che lo aveva reso cieco di un occhio, non si alzò più dal letto e gli amici e i figli li accoglieva coi pigiami che Lella provvedeva a cambiargli ogni iurnata profumati di bucato.

Enzo lo radeva, Lina lo metteva sulla seggiola di legno e rifaceva il letto e Tonino ci tagliava i capelli quando crescevano. L’appetito ci passò del tutto quando una notte ci vennero in suonno i camorristi bastardi che in galera lo avevano arrunziato. Fece un urlo che sentì tutto il quartiere e la mattina pareva morto tanto era pallido.

Chiamarono il dottore che ci diede dieci gocce di valium perché il cuore sbatteva nel petto come una frasca al vento e si doveva calmare. Passarono gli anni e Carminiello pareva un fantasma tanto era sicco. Lella ci cucinava i pasti preferiti. Vermicielli con il ragù. Pizza con la scarola. Calamari mbuttunati.

Ci metteva a fianco un bicchiere di rosso che mandava Giuseppe l’amico suo e qualche dolce di donna Adele, che dopo la guerra aveva aperto una pasticceria speciale che felicitava tante famiglie di Napoli, ma il marito non mangiava più. Prendeva solo acqua e valium e dormiva assai.

Nel sonno tremava come avesse sempre freddo.

È debbulezza diceva il dottore, fatevi forte donna Lella che ci vuole pacienza. I figli al settantesimo compleanno gli regalarono un televisore e ci fecero vedere Totò e pure i De Filippi. Fu l’unica volta che sorrise e strizzò l’occhio sano come a ringraziare, poi ripiombò nella depressione. Carminiello si spense in un marzo ventoso. Napoli si preparava alla primavera.

I fiori apparivano persino sulle buche aperte dalla bombe che non erano state più cementate. Piccoli e aggraziati fiorellini color carminio, stille di sangue venute fuori come un senso di giustizia.

Tra i vicoli impolverati le madonne di pietra lanciavano sguardi immalinconiti. I bambini si rincorrevano da un uscio all’altro, perché il quartiere continuava a essere un’unica affettuosa famiglia dove ognuno si prendeva cura dell’altro senza opinioni e differenze.

Questo era rimasto di quella guerra bastarda: il valore della solidarietà, che poco non è. Carminiello pelle e ossa passò dal sonno alla morte senza aver salutato, né abbracciato, né benedetto, né compreso, né pregato, né… Lo trovarono freddo e muto e chiamarono il dottore, pensando fosse la solita crisi. Morto d’inedia fu la diagnosi. D’inedia, perché quando sei uomo di rispetto vai fino in fondo e sai anche come, e non lo devi spiegare il dolore che non se ne va nonostante la vita offra più di una possibilità.

La violenza è una bestia che si nutre da dentro. Nessuno vede. I morsi li senti solo tu. Cadono i presupposti del vivere, perché poi lottare diventa una guerra ancora più bastarda di quella reale, perché non ti giustifica un’ideologia, la speranza, una mortificazione…non più. C’è solo il dolore e la nostalgia di quando ti sentivi innocente.

Al funerale non ci fu bisogno neanche delle chiagnare. Dietro al feretro piangevano tutti.

Lella svenne due volte per il dolore, ma i figli la sostennero e le sistemarono il foulard nero sul capo che, per un attimo, era scivolato scoprendo la lunga treccia che il marito carezzava ogni giorno quando era in salute. Per riprendere forza Lella si toccò le doppie fedi che avevano ricevuto dai genitori nel giorno in cui Napoli aveva festeggiato il loro matrimonio con fiori, dolcetti e qualche fuoco d’artificio sparato sul sagrato della chiesa e, per la prima volta, si chiese perché l’uomo della sua vita l’avesse lasciata sola. Da donna semplice non se lo seppe spiegare, pregò solo che ora stesse meglio di lei. Piano piano aveva capito che il dolore è diverso da persona a persona e se non te lo spiegano non lo devi capire. Lei sentiva il suo che ora la voleva viva mentre si sentiva morta.

Addio Carminiello martire gentile! Che l’hai pensato tu e lo penso anch’io quando il pensiero però è senza guinzaglio, se no quant’è difficile! Al paese dei morti i cuori feriti guariscono, si riempiono di luce e amore e qualcos’altro che non so, ma che saprò anch’io.

C’è stata la guerra e tanta violenza e l’hai giustificata con un’ideologia cretina che, attraverso la vena principale, si è infilata in testa e s’è fatta veleno. I martiri veri son quelli come te, che non ce la fanno, e a modo loro scrivono una storia delle lacrime per non venire meno a una promessa. Ma le storie son tante ed è ora che tu viva quella speciale, Uomo gentile.

Niente come la dignità darà pace al tuo cuore.
Tua nipote.

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