Canzoni per il mio utero. Maria Cefalà e la poetica della nuda esperienza
Recensione di Martino Ciano. In copertina: “Canzoni per il mio utero. Per Bach e per l’opposto al mio Zenit” di Maria Cefalà, Il ramo e la foglia, 2024
Una prosa lancinante apre questa raccolta, poi brevi componimenti ruotano intorno all’argomento spinoso dell’aborto, portando il lettore nel mezzo di una confessione a cuore aperto, così intima da spezzare il fiato. Canta Maria Cefalà; esegue i brani composti dai suoi sentimenti, frutto di un’esperienza concreta, diretta, che la riguarda, che ha vissuto.
Qui sta l’aborto, quell’atto che si giudica troppo frettolosamente; quel diritto di scegliere che la politica strumentalizza; quella discussione che, quando viene infarcita di etica e di morale, diventa solo un passatempo per tutti; tranne per chi ne ha fatto esperienza.
Cefalà, ad esempio, è una donna che c’è passata; dice a gran voce che lei non lo farebbe più, ma ciò non vuol dire che non debba essere un diritto per altre donne. Lei lo spiega nei suoi versi cosa ha visto, cosa ha sentito, come ha vissuto prima e dopo. Racconta di sé, si denuda, ci spalanca l’anima e il corpo, non si sottrae all’autocritica.
Sostenevi il diritto all’aborto, prima? Sì/E ora? Per le altre, sì. Per me stessa, no/Eri femminista, prima? Non convintamente./ E ora? Sì.
Mai si censura, mai si assolve, mai prova a persuaderci. La sua prosa è il racconto di un fatto, ogni verso è forza. È coraggiosa questa autrice, perché si sacrifica alla poesia, nonostante la possibilità di rimanere in silenzio e di covare il proprio dolore. E infatti, per non rendere tutto esibizione, lei dice senza veli e senza artifici.
Lo Spirito Santo che l’ha messa incinta, ossia l’uomo che l’ha abbandonata, viene immerso tra le liriche, ma non viene accusato di nulla. Lei ha scelto e la libertà impone anche un’assunzione di responsabilità. Ciò che colpisce di questa raccolta è la forza di una poetica della responsabilità, che rende l’esperienza un’attività poietica. Poteva diventare bigotta Maria Cefalà, invece ha scelto l’arte.
In croce diceva:/ Padre mio, perché mi hai abbandonato./Questa storia non si è mai capita/In croce/mamma/tu non c’eri/non ci stavamo in due/è roba mia./Ma quando urlando/ sventrata dal dolore/ho allungato la mano/schiacciato un tasto/e Bach è risuonato/lui cantava/e il male è diventato bianco./Allora ho saputo/che i Padri non abbandonano
Permettetemi anche un commento personale, anche se non dovrei, io farei leggere questo libro a donne e uomini, politici e architetti di moralismi; darei questa raccolta in pasto a tante persone che hanno sempre una risposta.
Li inviterei a leggere e poi a restare in silenzio, così come ho fatto io per un intero pomeriggio, non riuscendo ad esprimere nessun commento. Infatti, è così intima, ma allo stesso tempo per tutti, questa confessione, che ogni giudizio sarebbe superfluo.
L’amore di tua madre/è stato dirti:/vai./Perditi nella luce/non ti darò il mio destino/non mi darò il tuo destino./A un certo momento/lieve lieve/di soprassalto/hai capito/e hai detto/vado./Ti ho lasciato la mano/e sei scolato./In piedi, mi sono poi detta/oggi sono diventata obiettrice di coscienza/per me sola/ per e per te.
Che fare allora di questo libro? L’unica azione è quella di compenetrare tra le parole, costruire un ponte tra i significati, mettersi in cammino con l’autrice, ma non per consolarla, ma per essere con lei, tra qualcosa di inspiegabile e sfuggente, che pone l’uomo di fronte alla “nuda vita”.