La Città Assediata. Clarice Lispector e la ricerca della sopravvivenza
Recensione e foto di Antonio Maria Porretti
Quando si legge un’opera di Clarice Lispector, si ha sempre l’impressione di scivolare all’interno di un paradiso mancato e di un inferno ritrovato. Come due specchi che si fronteggiano, riflettendo contemporaneamente la propria e altrui superficie; le proprie e altrui viscere che risalgono dalla profondità della materia di cui entrambi composti.
È come immergere la mano in lacrime di cristallo, nell’attesa che svelino qualche arcano. È come scovare nel corso di una scalata quei punti di appoggio o da evitare per facilitarne l’ascesa. O il sentiero che conduce al precipizio. Sempre girovagando per la mente.
Non fa eccezione quest’ultimo romanzo pubblicato da Adelphi e tradotto da Roberto Francavilla ed Elena Manzato: La Città Assediata. Ancora una volta c’è una donna per protagonista; l’eroina di turno risponde al nome di Lucrécia Neves.
Ancora una volta si ha a che fare con una vita che si lascia cullare e trasportare dalle ottusità che vivacizzano una piccola città; di un sobborgo per la precisione: Sāo Geraldo. Microcosmo sbadigliante di odori di campagna e che aspira alla civilizzazione industriale.
Di pari passo, le trasformazioni di Lucrécia diverranno contraltari dell’ altra. Dopo il matrimonio con Mateus Correira, essa volgerà le spalle alla casa della sua infanzia e adolescenza per inurbarsi in una realtà ignota, dove faticherà a ritrovarsi. Appresa convenzionalmente attraverso giornali e riviste, quando viveva ancora sotto l’ala – fin troppo protettiva – di Ana, la madre vedova il cui sogno era di vederla sistemata.
Più che il contatto con la città, sarà la volontà del marito a forgiarle un’altra identica nuova di zecca. Trattata alla stregua di una di quelle merci che compra e rivende, traendone il massimo profitto.
Le pagine del romanzo pullulano di oggetti nei quali la protagonista cerca di ritrovare o scoprire parti di sé. Come sotto la minaccia di un costante assedio. Come in preda a una inguaribile ansia di fuga e di salvezza. Per sentirsi più accolta e amata; accettata. Tutta materia incandescente per Lispector, che ben conosceva i dissidi e gli sconquassi di una vita nomade.
Fuggita insieme alla famiglia di origine ebrea – ucraina per scampare ai pogrom della dittatura bolscevica, e approdata in Brasile come terra di una nuova origine.
Ma nemmeno quando Lucrécia ritornerà ai suoi luoghi natii, una volta divenuta anche lei vedova, le sarà possibile riedificarsi per come era. E il senso della perdita diverrà a quel punto totale. Sopravvivere sarà possibile? E come? Solo dimenticando.
Ancora una volta la scrittura di Clarice Lispector rimescola a suo piacimento tutte quelle caratteristiche di visionarietà per cui è – giustamente – famosa, sparigliando e con- fondendo onirico e reale. Quasi fossero movenze e passi di un minuetto dalla sincronia inossidabile.
Specchi e finestre restano postazioni privilegiate per una osservazione di un paesaggio esterno che si dissemina e sparpaglia dentro quelle fessure che
un’anima può lasciare apposta incustodite, nella speranza di trovarvi risposte giustificanti della sua stessa esistenza; tra effimere vittorie e anticipazioni profetiche di fallimento.
E lei, Lispector, ancora una volta si rivela suprema prestigiatrice di frasi e parole che giocano a mutar pelle, a sradicare e frantumare ogni concetto di linearità temporale, creando pagine che divengono stagioni di vita a parte. Perché apparteneva a quella cerchia di visionari che intuivano e vedevano dove si trovasse l’oltre, facendone una missione.