Cangareja: racconto dell’inquietudine

Cangareja: racconto dell’inquietudine

“Cangareja: racconto dell’inquietudine” è un racconto di Martino Ciano. In copertina una foto scattata e rielaborata dall’autore

Quand’era bambino, sua nonna gli diceva sempre “c’avia la cangareja”, una specie di irrequietezza molesta che lo spediva nell’orto a strappare i frutti appena nati. Una volta si arrampicò sull’albero di pero, si aggrappò a ‘na frunna, scivolò dal ramo sul quale si era seduto e ci mancò poco che si spaccasse la testa. Mo’ che era diventato adulto, si ricordava sempre di ‘sta cangareja: ‘na parola curiusa, di derivazione greca, e che significherebbe anche “cancrena”. Allora lui si domandava per minuti e minuti se anche la sua anima non fosse andata in cancrena, visto che certe volte si sentiva mordere da tutte le parti; erano morsi piccoli però, che gli provocavano una specie di solletico… un solletico che a lungo andare lo faceva infuriare.

Una mattina, la parola cangareja si fissò da qualche parte nella sua mente. Si svegliò arrabbiato e incazzato; sbottò persino contro gli uccelli che cinguettavano standosene sul davanzale. Quando fece colazione, la voce della nonna rimbalzava nella sua testa. “Tenisi la cangareja” diceva lei a ripetizione, e lui rideva perché ricordava fatti, persone e oggetti. Si evocava, si distruggeva; si sentiva come il protagonista di Psycho. Da sulu ti cugliunii, mi parisi nu babbu, si diceva mentre era seduto in poltrona, in attesa che tutti e cinque i sensi si liberassero dall’abbraccio del sonno.

E la cangareja diventò la sua parola del mattino…

Un giorno decise di partire per Roma; non sapeva perché, sentì solo che doveva farlo. Girovagando per la Capitale, una sera trovò un locale in cui si baciavano tutti; lui si intrufolò solo per una birra, che si procurò e che bevve al bancone; poi le luci si spensero, come prevedeva il copione della serata, e lui, preso dalla paura del buio, del ritrovarsi in mezzo a una folla che lo palpeggiava dovunque, iniziò a dare gomitate nei fianchi alle ombre che lo circondavano, a dare baci come un tacchino che ne becca un altro, a sentire sulle labbra il sapore della carne. Piacevole sensazione, finché non si sentì imprigionato dal caldo, dal sudore e dalla paura di soffocare. La voce di sua nonna si attivò nel cervello; andava a ritmo di techno.

E lui si agitava e gridava e non si fermava; si faceva largo tra la carne degli altri, finché vide la luce rossa che indicava l’uscita di sicurezza. Spalancò la porta e si tuffò fuori dalla sala, quelli che passavano nel corridoio lo guardarono come se fosse stato un terrorista. Sembrava pronto a farsi saltare in aria. Lui si portò le mani al volto e cominciò a ridere, e a gridare, mia nonna mi diceva che c’avevo la cangareja, ma tutti andarono via. Rimase lì, felicemente irrequieto, preso dalla contentezza smaniosa del bambino che si sente il cocco di tutti… né punizioni né anatemi lo colpiranno.

Era la stessa sensazione di potenza che provò quando svuotò un pacco di sale sulla testa della nonna, mentre era intenta a tagliare le melanzane. Rise per giorni, anche quando, la sera stessa, la madre lo mise spalle al muro e lo prese a schiaffi. A poco servì quella violenza, a lui piaceva vedere come i piccoli potevano dominare sui grandi. Sua nonna era grande, lui invece era piccolo, quindi la natura si era ribaltata. La cangareja era una rivoluzione?

Irrequietezza davanti alla fine del mondo

Era lì, inginocchiato nel mezzo del corridoio del locale. Qualcuno aveva chiuso la porta della sala buia nella quale uomini e donne si baciavano e si maniavani. Gli si avvicinò un buttafuori nerboruto e con il naso aquilino. “Che c’hai?” gli chiese, e lui rispose “la cangareja” e gli diede un calcio nello stomaco, ma quello, grande e grosso com’era, nemmeno cadde a terra; contrasse un po’ l’addome e con voce da cavernicolo lanciò un grido di battaglia: “Mo’ so’ cazzi tua”.

Allora corse via come quand’era bambino, come quando aveva appena svuotato il pacco di sale sulla testa della nonna. Il buttafuori pure era veloce, lo inseguiva e imprecava, lo minacciava, promettendo al cielo e agli uomini che al posto del culo avrebbero trovato la sua testa. Davanti all’ingresso principale si era pure messa la cassiera, ma quella si trovò scaraventata sul pavimento.

I due uscirono dal locale, lui davanti e il nerboruto dietro.
Lui attraversò la strada. L’altro si fermò sul marciapiede.
Fu allora che, tra il suono dei clacson delle auto, sentì la voce della nonna gridargli nel cervello: Quietu!
E il tram lo fermò, facendolo riposare nel suo sangue.

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