La fuga è codardia?

La fuga è codardia?

Articolo di Saverio Di Giorno

La fuga è codardia, è fallimento, è sconfitta. Non secondo il biologo Henri Laborit. “Elogio della fuga” è qualcosa di più di un trattato sul comportamento animale. Se ci fosse un bugiardino dovrebbe esserci scritto: altamente consigliato ai meridionali, da leggersi preferibilmente a settembre.

Il mese in cui le stazioni si affollano di ruote, gambe, nervi e lacrime che si uniscono e poi si staccano. Uno parte e l’altro resta. Su quel treno bisogna assolutamente leggere Laborit che dice: non stai scappando, non hai ceduto. Anzi, stai conquistando la tua libertà. È bravo Laborit. Dopo pagine e pagine nelle quali racconta casi di casi e specie che mettono in atto la fuga nei momenti più disparati riesce a convincere. La fuga non è un atto di sconfitta.

Elogio della Fuga. Ma la fuga è codardia...Il significato ultimo dei gesti umani è soprattutto quella della gratificazione, del piacere. La chimica delle connessioni neurali non lascia spazio a romanticismi. Se l’ambiente non è adatto alla propria crescita, l’individuo fugge per potersi realizzare. L’uomo è desiderio. Che ambienti sono, dunque, quelli non senza spazi pubblici mangiati dal cemento, come possono crescere i bambini senza stimoli, ma solo con l’idea di trovare velocemente un posto e non essere fessi (a queste latitudini sinonimo di onestà). Abbandonare i sogni, pensare alla sicurezza è la prima regola del manuale per stare al mondo che ha in dotazione chiunque sia nato al Sud. Dunque, la fuga diventa atto di affermazione, atto di libertà, addirittura. Non solo, ma fuggendo la natura si diversifica, si moltiplica e si contamina perché la vita cerca nuove traiettorie, si scopre capace di abitare nuove coordinate. La biodiversità è ricchezza. Non c’è vita nell’abitudine, nella ripetizione.

A chi è nato nel 2000 o giù di lì questo riesce semplice. Capaci di vivere ovunque e intendersi con i coetanei lontani molto più di quanto lo erano i genitori e i nonni. Non più membri di qualche classe, non padroni, né proletari. Parole ammuffite. Non ha più significato bianco o nero, sud o nord. E nemmeno maschio o femmina. Intersezioni, diversità, contaminazioni. Per chi di loro prende il treno a settembre, la fuga è semplicemente viaggio. Solo individui liberi di diventare ciò che vogliono.

A questo punto la ruggine già divora le parole: resistenza, lotta, ribellione. Accantonate insieme al mantello – che ora si scopre essere solo una tovaglia bucata della mamma – con cui da piccoli si pensava di poter volare. Lasciate però che ai biologi si oppongano i filosofi. Non è forse vero che le cose, tutte le cose, si definiscono per contrasti? E se l’affermazione è proprio nel contrasto, nella lotta?

Occorrerebbe liberarsi dalla consapevolezza che esiste un altro modo sotto al mondo. Un modo che appartiene ai Sud dove si baratta la salute con il lavoro, oppure ci si compra i libri a scuola (dove c’è scritto cosa significa essere onesti) con un lavoro a nero o ancora il voto con una pensione di invalidità. Liberarsi da questa educazione che cambia il modo di pensare, di reagire, che insegna il sospetto e il disinteresse. Esiste ‘libertà di’ e ‘libertà da’ e quale sia quella autentica è difficile dirlo. Liberarsi dalla propria terra: questo nemmeno fuggendo è possibile. Perché, caro Laborit, quei giovani meridionali non stanno fuggendo, sono stati cacciati via.

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