“Il mondo è tutto ciò che accade”. Quattro domande a Francesco Pileggi
Articolo e intervista di Martino Ciano. Foto di copertina: Francesco Pileggi con la sua squadra del cuore etiope
Di lui ho letto “Quando mia madre indossò la maglietta di Franz Beckenbauer”, edito da Rubbettino, e ne sono rimasto colpito. Mi è piaciuto il modo in cui ha raccontato l’adolescenza, la Calabria e la malinconia. È un romanzo dal tono ironico, che sa farti dimenticare la parte “brutta” di ogni esperienza, almeno per un attimo. Insomma, Francesco Pileggi mi piace come scrittore, mi piace perché è calabrese e mi piace come regista. Gli ho posto quattro domande semplici semplici, all’apparenza.
Da una maglietta alla Calabria il passo sembra breve, invece in mezzo ci sono tante cose. Ne cito alcune: l’adolescenza, l’emigrazione, la voce dei vinti, dei vincitori e degli eterni sognatori. Tu quali panni hai voluto indossare?
Be’, ho sudato nei panni di tutti i protagonisti, poi li ho stesi al sole ad asciugare, un po’ come si fa nel cinema e prima ancora nel teatro con il metodo Stanislavskij. Ho provato a guardarmi attorno con gli occhi di ognuno di loro, a vivere le loro paure, i loro desideri, le loro ansie, cattiverie, follie e meschinità per renderli credibili e verosimili. Ho indossato di tutto e di tutte le taglie: magliette e calzoncini da calciatore, camicie e cravatte, divise militari, tailleur femminili, minigonne, tonache da parroco, jeans, mimetiche da cacciatori e poi nudo, o in mutande. Mi sono spogliato e rivestito di principi etici e morali, ispirandomi a buoni e cattivi, reali e immaginari, di ogni età. Certo, è faticoso descriverne sentimenti, retropensieri, desideri, farli muovere, ridere, dannarsi, fargli fare all’amore o solo sesso o, ad alcuni, farglielo scoprire per caso per farli attraversare dal calore e dal tremore mentre se ne stanno belli e tranquilli su un albero di limoni. Ho provato a farli sognare nel tentativo di innescare un sogno collettivo più vasto. Non puoi narrare una storia o la vita dei personaggi se non diventi loro stessi; devi prenderti carezze e sputi in faccia dagli altri protagonisti. Una specie di empatia portata agli estremi, in cui ogni pagina è una porta da aprire su luoghi non tuoi e in cui non sai cosa ti aspetta.
Una volta mi hai detto che nel tuo prossimo romanzo racconterai anche di una fabbrica e dei suoi veleni. Ricordo male?
Ehm… non ne potrei parlare, non è il tema del romanzo, ma un… chiamiamolo “inciampo”. Del resto non è difficile nel nostro Paese inciampare in dei contenitori pieni di veleni mal sotterrati. C’è una vasta letteratura in merito, io l’ho solo sfiorata con uno dei miei personaggi. Devo dire che vedo molta reticenza a discutere seriamente di veleni con cui purtroppo alcune delle nostre comunità convivono. Non se ne può parlare, altrimenti “i turisti scappano”. Meglio tenersi i veleni per ingoiare il nostro pane avvelenato quotidiano, tanto prima o poi si muore comunque… o… no? Nel nuovo romanzo ci inciampo sì, ma con molta ironia; avviene, ops, dalle tue parti per giunta, ma non ti dico precisamente dove. È una nuova avventura, più complessa e con tanti nuovi altri panni ancora da stendere al sole!
Ti piace giocare con le immagini, pertanto, come le parole, le immagini sanno essere tanto schiette quanto menzognere. Attraverso loro che Calabria ti piace raccontare?
Sai bene tu, caro regista e scrittore, che quando inquadri un paesaggio, così come una persona, quel che mostrerai è solo un ritaglio. Sei costretto a lasciare fuori per forza qualcosa. Dunque, in alcuni casi racconto dei resti di quei tagli, in altri provo a focalizzare dettagli trascurati, ciò che abbiamo sotto i nostri occhi ma non riusciamo a vedere; in altri utilizzo occhiali speciali che ho scoperto in alcune reclame sui fumetti che leggevo da bambino e che permettono di guardare oltre i vestiti, i muri, le porte e dunque devo solo trascrivere di strette di mano impensabili, di pugni in faccia, abbracci e baci, di corpi semi vestiti o nudi, in un letto, in un ufficio o anche per strada, a volte vuoti di vite. C’è molto dunque di rubato, così come di “… questo non si può mostrare, non si può dire…” ma t’immagini che banalità altrimenti.
Dalla Calabria alla Germania e viceversa. Si dice che, in fondo, “tutto il mondo è paese”. Quanto si può essere calabresi tra i teutonici?
I “si dice che…”! Per quel che ho capito del mondo, ognuno di noi è un pianeta con “territori” sconosciuti persino a sé stesso. Ci spostiamo attraverso città e regioni zeppe di milioni di altri pianeti di cui vediamo solo involucri. Entrando e uscendo dai c.d. luoghi comuni, ti posso dire che mi sono sentito calabrese quando mi sono trovato davanti a cibi, lingua e linguaggi del corpo, nonché modi di comunicare per esprimere emozioni, del tutto differenti da quelli appresi nel mio luogo di origine. Sulla gestualità, per esempio, ho scoperto che la si può manifestare nei visi, nel tendere piccoli muscoli facciali e non per forza facendo ballare mani e braccia o tutto il corpo. Mi sono sentito calabrese rispetto ad un modo di vivere gli spazi pubblici e le stagioni, a come ci si saluta, al concetto diverso di ospitalità… potrei continuare in un lungo elenco, ma credo che chiunque viaggi nel nord Europa può constatare il proprio sentirsi differente. Posso però raccontarti di essermi imbattuto nella meraviglia di calabrese, italiano, quando ho toccato le opportunità che ti possono capitare come persona che ha qualcosa da dire, specie se nuova, al contrario di quel che succede da tempo nel nostro Paese. Qui, credo sia sotto gli occhi di tutti che anche gli ultimi che da poco ci governano non fanno che parlare di “stagione del merito”, ci hanno intitolato pure un ministero “…del merito”, ma poi basta leggere un po’ di notizie in alcuni giornali indipendenti per vedere che sorelle, fratelli, figli, parenti e amici di alcuni politici “meritano” sempre tutto e più degli altri, che la “famiglia è sacra” ma la loro! Credo però di esser io ad avere una concezione errata del concetto di “merito”! Però, in Germania ho incontrato anche la calabritaianità, come la sanità che non funziona, oppure quelli che trovano scuse e stratagemmi per non pagarti un lavoro, (poi però basta che gli mandi una mail decisa e ti chiedono scusa, oltre a pagarti anche gli interessi), il risentimento verso gli stranieri al limite del razzismo. Ho incontrato persone con atteggiamenti che da calabresi definiremmo mafiosi. Tirando le somme, in un bel po’ di anni ho conosciuto gente, tante persone, e dove ci sono persone ci sono storie, belle e brutte, ovunque… affetto e rancore. E dunque, forse sì, caro Martino bello, in fin dei conti hai ragione tu, forse tutto il mondo è paese. Nasciamo tutti con un canto d’agnello in bocca e lo smettiamo con almeno un desiderio non realizzato, uno di sicuro, insieme a delle domande senza risposte. E a cosa servirebbe la narrazione se non ad inventarsele delle risposte, se non a soddisfare quei desideri, almeno sulla carta? Alles Gute Paisà!