Il padre morto. Barthelme e la persecuzione di un archetipo

Recensione di Martino Ciano. In copertina: “Il Padre Morto” di Donald Barthelme, Minimum Fax, 2025
Chi è il Padre Morto? Un sovrano che sta più di là che di qua, che proprio non vuole lasciare il comando o una sorta di entità spirituale che guida le menti? O peggio ancora è un archetipo che perisce e risorge in continuazione tra le spoglie del nostro inconscio?
Dare una risposta è difficile, di sicuro leggendo questo romanzo di Donald Barthelme, apparso per la prima volta in Italia nel 1975, avremo materiale a sufficienza per riflettere sull’argomento, ma anche per farci grandi risate. Dopotutto, “Il Padre Morto” è un’allegoria postmoderna sul patriarca, su come sia difficile riuscire ad abbattere gli stereotipi.
In uno scenario da fiaba, ci imbatteremo nel lungo viaggio che i figli compiranno insieme al Padre Morto, cadavere parlante che non accetta di dover fare i conti con la propria sepoltura. Verrà gettato in un fossa e sarà dimenticato? Certo che “no”, ed è quello che l’autore ci farà capire fin dall’inizio, quando ci presenterà questo corpo sospeso tra vita e morte capace ancora di parlare, di avanzare pretese, di dare ordini, addirittura di arrabbiarsi se i suoi diktat non vengono tenuti in considerazione.
È un romanzo forte e di rottura questo di Barthelme, pieno di doppi sensi e di metafore che a volte ci faranno pure incavolare, stuzzicando il nostro lato puritano o volutamente rimosso. La realtà però è che “Il Padre Morto” è sempre lì e da lui nessuno si salva, neanche quei figli che stanno andando a scaricarlo in una buca. La sua autorevolezza infatti è persuasiva e soprattutto sa camuffarsi con l’ordine naturale delle cose, che poi è solo la logica che adottiamo per sopravvivere.
Infatti, certi dialoghi psichedelici e “senza senso” dovrebbero servire a questo, ossia a rompere definitivamente le catene che ci legano al Padre Morto; ma niente, lui resiste. Ha regolato le cose in profondità: la giustizia, la creazione, la sessualità, il linguaggio, la vita quotidiana. Per sbarazzarsi di lui bisognerebbe imparare a scrivere delle cose del mondo in maniera diversa, quindi bisognerebbe soprattutto imparare a pensare in un altro modo.
Sperimentale e ricco di rimandi, nonostante sia stato pubblicato in un’epoca di profondi mutamenti e di rivoluzioni, “Il Padre Morto” impressiona per la sua attualità, proprio perché quelle gerarchie e quelle categorie di pensiero non sono mai state né ammazzate né seppellite; sanno ancora affascinare, sanno riempire spazi lasciati vuoti dall’emancipazione telecomandata. Per questi motivi, Barthelme sostiene che il “parricidio fine a sé stesso sia inutile”.
Il suo è un romanzo senza orpelli, che mette insieme le schegge impazzite della nostra cultura, che crea un mosaico apparentemente privo di ogni logica, ma pur sempre interpretabile da ciascuno di noi in maniera diversa. Ed è questa la forza della letteratura postmoderna: decontestualizzare, interpretare, rimodellare ogni simbolo o segno, anche il più antico, per renderlo consono alle nostre esigenze. Il rischio però è che ci si dimentichi dell’origine e della storia di ogni Ente o Istituzione.
Un trabocchetto, sicuramente, perché è proprio in questo vuoto di memoria che sta mezzo vivo e mezzo morto il Padre di ogni ordine e di ogni catastrofe. Insomma, con la semplicità di un bambino e la follia di un eretico, Barthelme ha cesellato un’opera sul nostro inconscio così “realistica” da risultare per tutti e per sempre attuale.