Fioriture invernali. Campana e gli ossimori del nostro tempo

Fioriture invernali. Campana e gli ossimori del nostro tempo

Recensione di Filomena Gagliardi. In copertina: “Fioriture invernali” di Luca Campana, Interno Libri, 2021

“Distilli oro dalla polvere, custodisci/il sapore di un tempo a venire/come un miele stipato nell’inverno”
Luca Campana

Fioriture invernali è una raccolta di poesie che Luca Campana ha pubblicato nel 2021 con la casa editrice Interno Libri. Luca è un mio collega e so quanto valga sia come italianista che come scrittore. Il libro che oggi racconto non è recentissimo, ma un libro è per sempre, e non solo di quando lo scrittore lo scrive, ma anche di quando il lettore lo legge.

Io lo avevo già letto, ma solo durante gli ultimi mesi ne ho sentito l’urgenza: il suo titolo mi sembrava parlasse di me e a me. Fioriture invernali è organizzata in sei parti.

Come ci spiega molto bene lo stesso autore in una nota finale, la prima sezione annovera testi che richiamano gesti tipici della tradizione agricola e montana connessi con l’ inverno: essi fanno capo in un certo senso ad un tempo mitologico, quando l’io lirico, Luca, non era ancora nato: Luca è marchigiano come me e come me ha potuto respirare, già ante-vitam, le tradizioni tipiche della vita dei campi; nella seconda, più propriamente autobiografica, ricorrono in modo più accentuato i ricordi dell’infanzia e della prima giovinezza e si mescolano a riferimenti ad altri poeti; nella terza sezione vi sono poesie nate dal contatto con studenti autistici; la quarta e la sesta si confrontano con un altro grave tema dei nostri tempi recenti, la pandemia; la quinta consiste in unico testo ed è stata composta in ricordo della poetessa Amelia Rosselli.

A chiosare il titolo è sempre l’autore, nella nota già citata.

La spiegazione è necessaria perché in effetti il titolo, Fioriture invernali, di per sé è un ossimoro: come si può fiorire in inverno? Spiega Luca: “Il titolo che ho scelto per la raccolta riassume la mia idea e la mia esperienza della poesia: l’opera degli autori a me più cari, che si tratti di Leopardi o della Rosselli, di Scataglini o di Celan per citarne alcuni, mi ha sempre dato l’impressione di una meditata e allo stesso tempo istintiva, miracolosa elaborazione di un ossimoro, di qualcosa che accade “nonostante tutto”, e che anzi in quel “nonostante” si radica, che di esso finisce per nutrirsi. È dentro questo ossimoro che la poesia, sola, può tenersi: nel sentimento di un attrito paradossale e irriducibile che anima la vita e che percorre tutte le parole, come un taglio, che le separa e che, allo stesso tempo, le tiene unite”.

Per presentare un primo specimen delle liriche di Campana, inizio in medias res, ovvero da un testo contenuto nella quarta sezione, Dicono che il tempo modifica ogni cosa*, dedicata a Leopardi e alla sua La Ginestra, come si legge in uno stralcio: “Quando Leopardi scrisse La Ginestra/viveva a Napoli: compose la poesia/dopo aver visto un’eruzione del Vesuvio […]//La Ginestra è il suo fiore invernale,/la sua lode a una specie/radicata nella neve”.

Non è tutto questo un ossimoro? La poesia, che viene concepita dopo una distruzione? La ginestra stessa che, pur nascendo in tarda primavera, è come se fosse radicata nella neve, in quanto emerge sempre da dirupi rocciosi e aridi? Anche perché, come scrive lo stesso poeta, sempre all’interno della stessa lirica: “Le sue parole (sottintese di Leopardi) lodano quel fiore/avvinghiato a una terra inaridita”. Riporto, per opportuno accostamento, l’incipit del componimento leopardiano La Ginestra, o fiore del deserto: “Qui su l’arida schiena/Del formidabil monte/Sterminator Vesevo,/La qual null’altro allegra arbor nè fiore,/Tuoi cespi solitari intorno spargi,/Odorata ginestra,/Contenta dei deserti”.

Tornando ora indietro ripartiamo dall’inizio, e approdiamo di nuovo a quel tempo mitologico, prima della nascita di Luca, eppure scolpito nella sua memoria individuale come in quella collettiva, in quanto è Storia vissuta: “Angoli sempre più acuti di luce,/gelo di forra, gole d’ombra/dove si spensero gennai che furono eremitici/e poi, più tardi, partigiani,/quando ci si imboscava per sottrarsi/alle marce forzate, ai monconi,/ai piedi improvvisati di cartone,/di piscio senza scampo”.

Anche questa lirica nasce in effetti sotto il segno dell’ossimoro, tra inverno e resistenza, tra la nobiltà di chi è anacoreta per scelta e la prosaica necessità del piscio per chi rischia la vita.

La prosaica necessità, del resto, è anche quella dei contadini di un tempo, che non vivevano certo nell’abbondanza: per loro era fondamentale il maiale, un animale sacro, di cui non si buttava via nulla, destinato ad apportare calorie e nutrimento nei lunghi inverni di una volta. Ossimorica è la cura riservata ai maiali, in fase di allevamento, rispetto alla crudeltà del loro sacrificio, un rito, molto sentito dalle nostre parti, nelle Marche. Questo rito, nella sua crudele verità, potrebbe essere riassunto con la massima latina Mors tua vita mea: ”Fuori, subito dopo il tramonto, la strada/è già tutta un lastrone di terra e di ghiaccio; /ma dentro, al chiuso della stalla, c’è un maiale/che ingrassa a ghiande la sua carne. Lo scanneranno/prima che sia inverno…”. Lascio i dettagli più propriamente culinari e conviviali alla lettura di miei interlocutori.

Procedendo con Fioriture invernali, andiamo alla parte seconda, laddove aumentano i testi propriamente più autobiografici. Anche se, in un certo senso, tutta la scrittura è sempre in qualche modo autobiografica, come ritiene Luca Campana.

Come si legge dalla quarta di copertina del libello, il Nostro è nato in provincia di Fermo e ha trascorso la sua prima giovinezza in un piccolo borgo nel cuore dei Monti Sibillini. Il paesaggio che ha vissuto entra eccome nei suoi testi. Ad esempio quando rievoca il gesto fondamentale per chi vive in montagna di procurarsi legna da ardere, gesto che deve essere calcolato e preciso, io direi amoroso e rispettoso perché dove si taglia, la pianta possa rifiorire…

E come entrava il rumore di suo nonno dentro ogni angolo della sua casa mentre studiava: “…Mio nonno tagliava tronchi con l’accetta/per ore, li faceva a pezzi, /li ordinava in cataste millimetriche//Quando ero intento ai miei fogli di scuola/non c’era angolo in casa/in cui non arrivasse il rumore attutito/del ferro che penetra nel legno tenero:..”.

Anche qui è potente l’eco di Leopardi, stavolta attraverso il componimento A Silvia: come non ricordare il canto della giovane che, insieme al rumore del telaio, entra nelle stanze di Leopardi, intento a studiare?

Riporto i suddetti versi: “Sonavan le quiete/Stanze, e le vie dintorno,/Al tuo perpetuo canto,/Allor che all’opre femminili intenta/Sedevi, assai contenta/Di quel vago avvenir che in mente avevi./Era il maggio odoroso: e tu solevi/Così menare il giorno.//Io gli studi leggiadri/Talor lasciando e le sudate carte,/Ove il tempo mio primo/E di me si spendea la miglior parte,/D’in su i veroni del paterno ostello/Porgea gli orecchi al suon della tua voce,/Ed alla man veloce/Che percorrea la faticosa tela./Mirava il ciel sereno,/Le vie dorate e gli orti,/E quinci il mar da lungi, e quindi il monte./Lingua mortal non dice/”Quel ch’io sentiva in seno”. Semplicemente fantastici.

Luca è un insegnante e, come tale, dedica una parte di Fioriture invernali ai suoi fiori più belli, i suoi alunni: si tratta della terza, destinata ai ragazzi autistici. Al suo interno ci sono componimenti molto toccanti, nei quali persiste un ossimoro fra l’inverno del ghiaccio autistico che iberna le persone in un mondo tutto loro e i piccoli segnali di presenza che spesso anche in modo casuale esse sembrano dare. Mi è sembrato di percepirlo in particolare nella lirica Sfogli distrattamente, ad una ad una, la cui lettura integrale rimando al lettore.

Se La Ginestra di Leopardi insegna a fiorire in una condizione di deserto e aridità, anche gli inverni del lockdown, dopo i quali esce in effetti questo libro offrono tali possibilità, nonostante essi avessero costretto a salvare le vite in base a dei ‘margini stimabili di guarigione’ come si legge in una poesia tratta dalla sezione quattro, una di quelle dedicate al Covid: “Servono calcolo e precisione/per contenere un’emergenza [….] // La scelta è ponderata, /è vincolata da una serie di fattori:/dipende ad esempio dall’età/dalle patologie pregresse/dal generale stato di salute/dai margini stimabili di guarigione/decidere chi ha la priorità sugli altri,/chi deve vivere, chi invece…”

Si noti l’incipit uguale a quello della poesia sul nonno che prendeva legna dagli alberi. Anche questa seconda selezione si basa sull’amore o piuttosto sul cinismo?

Gli anni del Covid sono stati quello dedicati alle letture, alla Didattica a distanza, alla cultura condivisa: si pensava che ne saremmo usciti migliori ma ad oggi, con due guerre in corso e con tanti altri eventi mondiali che sanno molto di fascismo, di complottismo, di ignoranza e di pregiudizio, non e così.

Di fronte a tutto ciò, però, la cultura rappresenta sempre una fioritura, una speranza: io me lo ricordo che all’inizio della pandemia il mondo degli intellettuali si era mosso sul versante della condivisione e della solidarietà: si leggeva Dante, si organizzavano letture poetiche online, le case editrici permettevano di leggere gratuitamente contenuti di libri digitali et similia.

Cos’è, del resto la cultura, se non circolazione nel tempo e nei tempi, passaggio, testimonianza, il ritrovare se stessi, oggi, nell’antico e cose affini? Lo si evince dalla seguente lirica, tratta dalla sesta parte, che riporto per intero, in modo che se ne possa apprezzare la bellezza: “Dalla luce che leviga il tuo viso/conosci le illusioni del tuo tempo,/misuri le distanze, le attraversi,/impari che tradurre da una lingua antica/è un po’ come scolpire il proprio doppio:/a poco a poco emerge dalla pagina/uno zigomo, un occhio,/uno sguardo dal quale guardarsi//Nell’ottavo trattato della quarta Enneide/ Plotino parla della sua dottrina/dell’anima non discesa nei corpi/secondo cui tutta la vita è un tendere/verso qualcosa di incorrotto che è da sempre/fuori e dentro di noi.// è bello credere, anche solo un momento,/alle parole del filosofo, supporre/che di noi due qualcosa era già scritto/prima ancora del tempo”.

La cultura, infine, è memoria di quelle ginestre che si autodistruggono non per egoismo, ma per fragilità, come Amelia Rosselli a cui Luca dedica l’unica lirica contenuta nella quinta sezione. Lascio ai lettori la libertà di scoprirla attraverso una lettura personale.

In questa sede, per il momento, mi limito a rinnovare i miei sentiti e non retorici complimenti al mio collega per le liriche di Fioriture invernali che, con un linguaggio secco, preciso, diretto, ma al tempo stesso ricco di un potenziale semantico non scontato, hanno saputo fare breccia nella mia anima, nel mio cuore in modo necessario, urgente, autentico.

Tutto ciò riflette la bella personalità di Luca che ho avuto la fortuna di conoscere e a cui auguro con altrettanta autenticità il mio Ad maiora, semper, affinché possa scrivere ancora di altri fiori e di altre fioriture.

*le poesie di Luca Campana non hanno titolo, come accadeva nella tradizione lirica più antiche: i titoli sono convenzionalmente riconosciuti nel primo verso di ogni componimento

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