Edipo a Berlino. Francesca Veltri e la storia delle ripetizioni

Edipo a Berlino. Francesca Veltri e la storia delle ripetizioni

Recensione di Martino Ciano

Perché un romanzo di 670 pagine dovrebbe spaventare l’aspirante lettore? Perché sono necessarie tutte queste parole nel nostro mondo amante della sintesi, del minimalismo emozionale e linguistico? Le risposte me le sono date proprio quando sono giunto alla fine di questo libro: è finito il tempo degli architetti del pensiero. Il romanzo di Francesca Veltri è una architettura dalle solide fondamenta. Affonda nel mito, come le quasi mille pagine de Le Benevole di Jonathan Littell; si erge tra emozioni caotiche come le oltre mille pagine de L’Arcobaleno della Gravità di Thomas Pynchon; ci porta tra i conflitti di identità come Keyla la rossa di Isaac Bashevis Singer.

Di fronte a un’opera come questa di Francesca Veltri bisogna tacere. Voglio parafrasare la settima proposizione del Tractatus logico-philosophicus del filosofo Ludwig Wittgenstein, perché questo libro, come lasciava intendere quella proposizione in riferimento a tante altre cose di cui crediamo di sapere, è difficile da raccontare, si rischia di rovinarlo, di banalizzarlo. Ma proviamoci comunque e scendiamo a patti con la nostra voglia di comprendere quel senso di autopunizione che, come Edipo quando scopre ciò che ha combinato, Karl/Stefan, protagonista di questo romanzo, si impone in maniera stoica. Perché il destino è questo, ossia qualcosa che si incastra nella Necessità, che è anch’essa una trama che sovrasta persino l’onnipotenza degli dei. Ed ecco che per uno strano scherzo della Necessità, poco tempo dopo che il giovane nazista Karl ha ucciso un ebreo negli scontri del 9 novembre 1938, durante la Notte dei cristalli, scopre di essere nato a Varsavia, in Polonia; scopre che lui è un ebreo purosangue e che ancora in fasce è stato adottato e cresciuto a Berlino, in una famiglia in cui quasi tutti i componenti sono convinti nazisti. Tant’è che viene educato come nazismo comanda, fin quando non scopre che lui appartiene alla razza maledetta, e come ebreo verrà rispedito a Varsavia, in quel ghetto in cui sono stati rinchiusi tanti come lui. Capito che intreccio?

Edipo si acceca quando comprende di aver ammazzato il padre e di aver sposato la madre, Stefan-il-fu-Karl invece deve continuare a vedere, forse deve strapparsi il cuore per non sentire il rimorso. E lui infatti non viene subito divorato dal senso di colpa, ma avverte solo una certa inadeguatezza, come se qualcuno lo stesse prendendo in giro. Ci metterà del tempo per comprendere quanto l’ideologia possa ingannare e che, come la razza, è effimera, evanescente, bugiarda. Anzi razza e ideologia sono concetti umani, creati da stolti che necessitano di certezze per sfuggire ai tentacoli del caos. Senza certezze l’uomo sarebbe in balia del cieco destino, della fatalità degli eventi; senza certezze l’umanità rotolerebbe giù come Sisifo con il suo macigno, ecco perché tutti lottano per dare un senso ad ogni respiro emesso. Fatto sta che esiste l’errore. Gli errori possono essere a priori o conseguenza di valutazioni sbagliate, ma poco importa anche questo. Infatti, un errore è un errore e con esso bisogna fare i conti, bisogna prenderne coscienza e assumersi le responsabilità del dopo. Fatto sta che in pochi ci riescono e anche se qualcuno ammette i propri sbagli, prova sempre a giustificarsi, a incolpare qualcosa o qualcuno e, infatti, proprio lo scarica barile rende ogni cosa banale… compreso il male.

Lì, nel ghetto di Varsavia, il mondo stesso è il Giudizio universale, almeno per Stefan-il-fu-Karl. Si sente come catapultato in un regno in cui vige la regola del contrappasso. La sua pena è la sua colpa, la sua colpa lo pone contro sé stesso. Esther lo perdona, addirittura lo sposa. A lei confessa che un tempo si chiamava Karl, che un tempo era fieramente nazista, che un tempo ha ammazzato un ebreo, che un tempo era stato un uomo banale. Nota anche che proprio tra gli ebrei esistono diversi schieramenti, che non c’è una solidarietà razziale, anzi anche tra loro vale il si salvi chi può. Lì, nel ghetto di Varsavia ognuno prova a sopravvivere, chi alla propria coscienza, chi ai nazisti, chi alla fame, chi alle prove inflitte da Dio, chi alla Storia, chi all’evanescenza di tante cose.

Ed ecco qui spiegata la grandezza del romanzo di Francesca Veltri, ossia quel respiro lieve, quel continuo strappare ossigeno dell’umanità. Umanità che si riproduce sotto il cielo e che calpesta indomita la terra mentre inventa razze, categorie, concetti, culture, costumi e fenomenologie, senza però comprendere d’appartenere a un’unica sostanza, a un unico e irreversibile cammino.

Ci volevano 670 pagine per dire tutto questo? Secondo me anche mille, soprattutto se venissero scritte come queste di Edipo a Berlino, ossia con uno stile che apre una porta sull’universale senso di inadeguatezza che l’uomo avverte davanti alla tragedia, soprattutto quando è collettiva.

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