Mafalda di Savoia. Il coraggio di una principessa

Mafalda di Savoia. Il coraggio di una principessa

Articolo di Letizia Falzone. In copertina Mafalda di Savoia e figli, anno 1930, licenza Cc Wikimedia

Vivace ed allegra, secondogenita del re Vittorio Emanuele III ed Elena di Montenegro, la principessa Mafalda di Savoia sin dalla giovane età dimostra una grande sensibilità verso quanti non godono dei suoi stessi privilegi. Eredita dalla madre il senso della famiglia, i valori umani, la passione per la musica e per l’arte. Per tutta la vita ha mostrato grande coraggio e una forza d’animo fuori dal comune nell’affrontare gli ostacoli che si son frapposti tra lei e i suoi obiettivi.

Quando poco più che ventenne incontra Filippo d’Assia, il grande amore della sua vita, Mafalda supera l’opposizione della famiglia, di Mussolini e del Vaticano (Filippo d’Assia era di fede protestante) e riesce a sposarlo. Il loro è un matrimonio d’amore e da questa unione nascono quattro figli.

Nei primi anni tutto sembra procedere nel migliore dei modi, ma con l’avvento del nazismo, Filippo viene mandato in Germania al servizio di Hitler ed è costretto così a stare per lunghi periodi lontano dalla sua famiglia. Negli anni successivi, pur essendo divenuta una principessa in parte tedesca, non nasconde la sua avversità ad Hitler e al suo regime. Ciò mette in discussione il suo matrimonio ma lei, nonostante tutto, non abbandona le sue opinioni e riesce perfino a far cambiare opinione politica al marito.

Nel 1943, in piena guerra mondiale, la principessa Mafalda parte alla volta della Bulgaria. Voleva abbracciare la sorella Giovanna di Savoia moglie del re Boris III, agonizzante. La firma della resa dell’Italia agli anglo-americani e il suo annuncio la colsero Oltralpe. Hitler cercò d’arrestare il Re Vittorio Emanuele III, la Regina e il principe ereditario, che però elusero la cattura rifugiandosi a Ortona e poi, via mare, a Brindisi. Mafalda volle a tutti i costi ritornare a Roma per riabbracciare i figli. I piccoli Savoia-Assia erano ben nascosti in Vaticano sotto la protezione del cardinal Montini, il futuro Paolo VI. Mafalda rimase qualche ora con loro e la sera ritornò alla villa Polissena con la promessa di tornare l’indomani. Non li vedrà mai più.

Benché fosse figlia del Re d’Italia, e legatissima alla sua famiglia di origine, era anche e soprattutto cittadina tedesca, principessa tedesca, moglie di un ufficiale tedesco, quindi sicura che i tedeschi l’avrebbero rispettata. Ma non andò così. La mattina, all’improvviso, venne chiamata al comando tedesco per l’arrivo di una telefonata del marito da Kassel, in Germania. Un tranello: in realtà il marito era già nel campo di concentramento di Flossenbürg. Mafalda venne subito arrestata e imbarcata su un aereo con destinazione Monaco di Baviera; fu trasferita poi a Berlino e infine deportata nel Lager di Buchenwald, dove venne rinchiusa nella baracca n.15 sotto falso nome.

La principessa possedeva solo i vestiti che indossava al momento dell’arresto. Le sue richieste di vestiti e biancheria furono sempre negate. Le fu proibito anche di scrivere e il suo nome venne cambiato con quello di Frau Von Weber. Fu rinchiusa in una baracca riservata a prigionieri particolari che non lavoravano e ricevevano il vitto delle SS, poco migliore di quello dei prigionieri comuni. Soggiornò insieme al socialdemocratico tedesco ed ex ministro Brenschiel, sua moglie e una dama di compagnia. La principessa ebbe anche occasione di conoscere un prigioniero italiano, il sardo Leonardo Bovini, addetto allo scavo di una trincea antiaerea all’interno del recinto della baracca in cui Mafalda era prigioniera. Da lui si ebbe la notizia al Campo della presenza della principessa di Savoia.

Nel campo di concentramento di Buchenwald non badò a se stessa: era deperita, mangiava poco. In cima ai suoi pensieri c’erano i figli, il marito, i genitori, gli internati del campo e in particolare gli italiani del lager, ai quali fece sentire tutta la sua vicinanza.

Nell’agosto del 1944 gli anglo-americani bombardarono il lager; la baracca in cui era prigioniera la principessa fu distrutta e lei riportò gravi ustioni e contusioni varie su tutto il corpo: il braccio sinistro ustionato fino all’osso e una vasta bruciatura sulla guancia. Ai primi soccorritori, tra i quali riconosce due prigionieri italiani dalla “I” che portano cucita sulla schiena, dice: “Italiani, io muoio, ricordatevi di me, non come di una principessa, ma come di una vostra sorella”.

Viene soccorsa anche da alcune prostitute, alle quali per riconoscenza affida tutti i suoi beni: piccoli strazianti ricordi, le foto dei figli, la camicetta di seta indossata il giorno della deportazione.

Fu ricoverata nell’infermeria della casa di tolleranza dei tedeschi del lager, ma senza cure le sue condizioni peggiorarono. Dopo quattro giorni di tormenti, a causa delle piaghe insorse la cancrena e le fu amputato un braccio. Ancora addormentata, Mafalda venne abbandonata in una stanza, privata di ulteriori cure e lasciata a sé stessa. Morì dissanguata, senza aver ripreso conoscenza, nella notte del 28 agosto 1944.

Neppure l’amore di Filippo ed il suo estremo tentativo di portarla via da quel luogo di morte riuscirono a salvarla.

Figlia ideale, madre ideale, moglie ideale… Il martirio di Buchenwald non fu altro che l’epilogo di una vita perennemente spesa e protesa verso il prossimo. Una principessa dai connotati straordinariamente umani, Mafalda rappresenta una vittima sacrificata sull’altare degli olocausti perpetrati in una guerra dove l’odio ha espresso le sue più turpi facce, in una guerra più ideologica che di conquista.

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