I detective selvaggi. Bolaño e l’indagine sulla vita

I detective selvaggi. Bolaño e l’indagine sulla vita

Recensione di Martino Ciano. In copertina: “I detective selvaggi” di Roberto Bolaño, Adelphi, edizione del 2016

Un romanzo-mondo, o di un mondo possibile, o forse un romanzo di formazione. Ma è davvero così importante apporre un’etichetta su quest’opera? Non credo. “I detective selvaggi” di Roberto Bolaño è tutto ciò che si vuole: una storia di giovinastri, una parodia sull’infantilismo dell’estremismo, un sarcastico esercizio di scrittura, una parabola sull’arte, una allegoria su personaggi incendiari che con gli anni diventano pompieri.

Tutto questo è possibile perché il buon Roberto sceglie la forma lunga, consegnandoci 688 pagine di frammenti, di testimonianze, di ricordi, di racconti che si intrecciano e si contraddicono. Tutto inizia nel 1975, con il diario di Juan García Madero, giovane poeta e studioso che decide di unirsi ai componenti del “realismo viscerale”. Sono tipi tosti che, nel Messico di quegli anni, vogliono distruggere la cultura ufficiale, ma poi si perdono tra alcol, droga e puttane. Per loro Octavio Paz è un damerino, Borges anche è uno da prendere con le pinze.

Insomma, come i Futuristi di Marinetti, pure loro sono convinti che “per certi attempati artisti sia giunto il momento della pensione”. Poi tutto prosegue con una serie di testimonianze che hanno per oggetto le scorribande, in giro per il mondo, dal 1976 al 1996, di Arturo Belano e Ulises Lima, i due guru del “realismo viscerale”, sorretti da quel principio di disillusione precoce che rende, paradossalmente, certi individui degli inguaribili sognatori.

Infine, come se fosse un’appendice, ci ritroviamo di nuovo nel 1976, tra le pagine del diario di Madero, attraverso cui viene raccontata un’altra indagine che lui, Belano e Lima, hanno effettuato mentre fuggivano da un magnaccia che voleva riprendersi la sua donna, ossia Lupe.

Et voilà, il gioco è fatto…

Giunti all’ultima riga avremo respirato parole di vera letteratura. Avremo trovato lo spirito sbarazzino di chi “non ha nulla da perdere”, di chi “ha messo la propria vita al servizio di un ideale”, di chi ha detto “no a ogni regola sociale”. Ma avremo anche inalato il respiro lungo dell’esistenza, di quel regno del “possibile” che uno scrittore non dovrebbe mai stancarsi di indagare. E tra le parole del romanzo, in fondo, c’è anche questo messaggio: la realtà è variegata; diventa noiosa se la leghiamo a quella forma precostituita che ci viene inculcata giorno dopo giorno.

È pur vero che siamo così tanto schiacciati dagli obblighi e dai doveri che ci vengono suggeriti dalla società, che nessuno è davvero in grado di resistere ai richiami della “normalità”. A meno che ognuno di noi non faccia come Ulises Lima che, come il Gesù perennemente in fuga dopo aver elargito i suoi miracoli, giunto in un posto, conosciute le persone che lo abitano, immersosi nella loro realtà, si dilegua per continuare a vagabondare, quindi a esplorare l’esistenza.

Oppure, bisognerebbe agire come Belano, che dopo tanto girovagare si ritroverà in Africa, nel mezzo di una delle molte guerre civili teleguidate dall’Occidente, con lo scopo di mettere fine alla sua vita. Lui, così simile al suo creatore tanto da sembrare un alter ego di Bolaño, vuole morire da eroe, anche se non si sente tale. Ma allora cosa lo spinge lì? Be’ è un po’ il motivo che sorregge l’intero romanzo, quindi è giusto che lo scopriate voi.

Attenzione però, tranne Madero che ci parlerà per mezzo del suo diario, le vicende di Lima e Belano le apprenderemo dagli altri, ossia da quei tanti personaggi che racconteranno al narratore-detective le loro esperienze con questi due individui misteriosi. Pertanto, un altro dubbio ci perseguiterà: chi è che dice la verità e chi sta bluffando? Un testimone, infatti, ha sempre la possibilità di omettere.

Ma alla fine di tutto ciò, cosa resta dei “Detective Selvaggi”?

Di sicuro un’indagine sull’umanità, sulle aspirazioni di una generazione, sui limiti dell’arte, sulle possibilità inesplorate della letteratura, sulla commedia che diventa tragedia e sulla tragedia che si trasforma in un comico nichilismo.

Ma fatemi essere anche un po’ cinico, o realvisceralista, non è vero che opere del genere non si scrivono più o che nel mondo non ci siano scrittori che sappiano trasmettere, per mezzo di un libro, la gioia che stanno provando nel comporre una storia che magari non è neanche destinata alla pubblicazione. La verità è che investire su tutto questo costa.

Leggere un libro del genere richiede pazienza, discernimento e anche un approccio giocoso nei confronti dell’arte. Così facendo, ancora di più traspare la leggerezza, oserei dire la naturalezza, della scrittura di Roberto Bolaño, che dopotutto ha solo raccontato degli accadimenti stando con un piede nella realtà e con un altro nel regno della fantasia.

Altro non ha fatto se non indagare sull’esistenza. E poi, quanto c’è della vita di Roberto in questo libro… colui che scelse a sedici anni di diventare scrittore, di abbandonare gli studi liceali e di dedicarsi anima e corpo alla lettura e alla scrittura.

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