L’uomo che cercava la moglie in mare

L’uomo che cercava la moglie in mare

Racconto di Selene Pascasi. Foto di Martino Ciano

Lì, il suo bastone poteva ben poco. Lì, a circa un metro dalla battigia, in quella stoffa di terra che si arrende al mare. Lì, dove sabbia e acqua danzano al ritmo del vento. Lì, in quel lembo lucido d’eterno che, come ventre di donna, custodisce il riflesso morbido della luna.

Lì, le sue gambe ossute vacillavano ad ogni passo del legno che, ormai da anni, lo accompagnava fedele. Come un terzo piede. Come il sostegno del figlio che non aveva mai avuto e che ora avrebbe potuto lenire il dolore bastardo che gli si era annidato nello stomaco da quando Anita, sua moglie, lo aveva lasciato da solo a respirare l’inverno della vita.

Mario si era innamorato di lei sulla soglia dei quarant’anni, quando i suoi amici erano già padri di adolescenti e si erano arresi ai ritmi stanchi delle abitudini. Il pranzo della domenica. I pomeriggi invernali sul divano a guardare la televisione. Le rituali, patetiche cene con i compagni di classe passate a parlare dei propri ragazzi, dei loro traguardi nello studio e nello sport. Figli come trofei. Ritratti di famiglie felici solo all’anagrafe.

Mogli e mariti innamorati delle certezze di un buon matrimonio ma che del vero amore non sapevano nulla, presi ciascuno da relazioni parallele neanche ben celate. Del resto, perché affannarsi a nascondere tradimenti a chi aveva deciso di sposarsi per uniformarsi al dovere sociale?

Ipocrisia. Finzione. Sorrisi pronti all’uso, volti di cera, prigioni di lusso.
Un mondo alieno a quello di Mario. Ancora puro. Ancora bambino.
Il tempo non aveva sbiadito l’entusiasmo che gli accendeva gli occhi quando un profumo o il miracolo dell’alba gli precipitavano dentro. Lui non avrebbe mai barattato l’anima per esibire un erede come trofeo di mascolinità e un’avvenente consorte come passe-partout per una brillante carriera di lavoro. No, Mario non avrebbe mai permesso a nessuna donna di condividere il suo letto e le sue malinconie se non l’avesse amata oltre ogni confine. Se non ne avesse avuto bisogno come l’aria. Come il cielo.

La sua solitudine gli bastava e non l’avrebbe sporcata con una presenza di plastica umana dalle movenze tanto affascinanti quanto costruite o con una creatura meravigliosa che, però, non gli scompigliava le emozioni.

Ma si sa, le cose belle, importanti, accadono all’improvviso.
Anita lo era. Bella, intendo.
E nel giro di qualche mese, per Mario divenne anche importante.
Il sogno realizzato. L’incastro prefetto. Non un capriccio o un’attrazione carnale. Anita conservava fra le ciglia una rara trasparenza.
Era l’unica che avrebbe potuto abitargli l’anima senza privarlo della libertà perché era lei stessa aria. La sua aria. Vita. La sua vita.
Di lì a poco divenne sua moglie.

Purtroppo il destino non li rese genitori ma, in compenso, furono amanti e complici per quasi trent’anni. Tra loro non esisteva un prima e un poi. Si erano raccontati il passato mentre tessevano il futuro. Ma in silenzio, senza usare parole. Dialogavano fondevano pelle, ossa e pensieri.
Erano un tutto inscindibile.
Ovunque era casa se si abbracciavano.
Ovunque era il vuoto se si allontanavano.
Ed era successo, sì, di perdersi. Forse perché quando si ama troppo, quando ci si sente salvi solo insieme, si voltano le spalle a chi potrebbe scaraventarci addosso una felicità che non siamo pronti a maneggiare.

Ma è un gioco perso in partenza. Resisti ore, giorni, mesi.
Poi ti arrendi. Sei stanco di correre. Ti fermi. Ti arrendi. Torni. Resti.
Era gennaio quando Anita e Mario, dopo un addio e un paio di pause, cedettero all’amore, alla felicità e a tutte le conseguenze del caso.

Gli anni corsero veloci e non conobbero la noia della quotidianità.
Loro, che avevano continuato a desiderarsi anche quando erano scivolati in altri corpi per ingoiare il dolore dell’assenza e fingere che dimenticarsi sarebbe stato facile. Loro, protagonisti di una storia surreale.

Una storia che non doveva finire. Non in quel modo, almeno. Invece si interruppe nella maniera peggiore che potesse esistere. Anita perse l’uso della ragione e un male vigliacco le strappò senza pietà ogni barlume di memoria. Le confidenze, gli errori, le schiene sudate, le promesse. Dalla sua mente tutto lentamente scomparve. Persino Mario, che divenne poco a poco un estraneo.

Accettarlo, per lui, fu come morire. Ma non tentò di farle ricordare nulla. Non voleva forzarla. Solo viverla.
La tenne comunque con sé. Per curarla, assisterla, contemplarla.
Era ancora bella, caspita se lo era. Nonostante le rughe e la malattia.
Ed era ancora importante. Nonostante non riuscisse più ad amarlo.
E quando si stringevano erano ancora splendore. Spettacolo.

Ma come ogni spettacolo che si rispetti, anche il loro aveva avuto un finale inatteso. Cinepresa spenta. Buio spietato inclinato sul pavimento.
Forse senza volerlo, fu proprio quel vuoto e quella dannata assenza di coscienza a muovere i passi di Anita che, all’imbrunire di un fine ottobre andò via. Chissà dove. Chissà con chi.

Nessuno seppe più nulla di lei.
Lasciò solo la sua fede sul tavolo e un foglio con scritto «Noi».
Mario non pianse. Infilò l’anello accanto al suo e lo baciò. Gli piacque pensare che avesse scelto di andarsene perché stava guarendo e voleva sfiorare senza distrarsi i ricordi che stavano lentamente riaffiorando. Non fu così. Anita non tornò più e nello sguardo di Mario si spense la luce.

Le stagioni si avvicendarono mute e sordo era il dolore della scomparsa. Si, perché scomparire non è morire. È peggio. Molto peggio. Per chi resta è cadere in una rete nera di angoscia. È sangue nei polmoni.

Di nuovo estate. Mario terminò la sua scorta di chimere e salì su un treno. Direzione mare. Uno strano sogno gli aveva parlato del posto dove aveva conosciuto Anita. Un lido. Lo trovò. Prese un ombrellone, sfilò gli abiti e si avvicinò con fatica al bagnasciuga. Era vecchio e camminare con il bastone che affondava nella sabbia era un’impresa. Ci riuscì.

Raggiunse l’acqua e si chinò per accarezzare le onde come faceva con lei. Per un attimo perse l’equilibrio e cadde ma un giovane lo aiutò subito a rialzarsi. Mario, commosso per quel gesto cortese, sorrise e lo ringraziò tendendogli la mano sinistra, libera dal bastone.
La mano sinistra. Restò pietrificato ad osservarla e si sentì svenire.

La fede di Anita non c’era più. Il suo dito scarnito e stanco non l’aveva protetta abbastanza lasciandola cadere. Proprio come lui non era riuscito a proteggere la sua donna impedendole di perdersi nel vento.
Pianse a dirotto. Questa volta sì che pianse. Poi chiuse gli occhi.
E quando li riaprì gli parve di vedere l’anello galleggiare poco più in là.
Corse a prenderlo. Corse con l’energia di chi ama.
Corse e annegò senza accorgersene.

Arrivarono i soccorsi. La folla delle tragedie si fece cerchio.
Mario non fu mai trovato, esattamente come Anita.
Forse quei due, testardi come l’amore, avevano ingannato il destino e si erano dati appuntamento in un’altra dimensione, nell’altrove dove niente e nessuno li avrebbe più separati. Erano tornati a casa.

Quel giorno, quando Mario sparì nel mare, sulla battigia c’era disegnato un cuore con dentro una scritta: «Noi».

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