Vocabolario delle Aree interne. Nicholas Tomeo e la “grammatica” dell’entroterra italiano
Recensione di Guido Borà. In copertina: “Vocabolario delle Aree interne” a cura Nicholas Tomeo, Radici Edizioni, 2024
Nel 2020, poco più di 4 milioni e mezzo di italiani vivevano, e vivono tuttora, in 1.904 Comuni su una superficie di 970,52 chilometri quadri, individuati come aree interne dalla Strategia Nazionale delle Aree interne (SNAI) 2014-2020, proseguita dalla programmazione 2021-2027. Si tratta di “aree non urbane in declino o a rischio demografico, ma il cui presidio attivo di comunità è cruciale per la tenuta complessiva del territorio sotto il profilo idrogeologico, paesaggistico e dell’identità culturale”. Sono numeri non trascurabili, in quanto si riferiscono al 7,7% della popolazione residente, al 24,1% dei Comuni e al 31,1% della superficie nazionale.
Aree con uno spopolamento significativo -1,4% tra il 2001 e il 2020 contro il +3,9% a livello nazionale, individuate a seconda della presenza o meno di servizi essenziali (istruzione, sanità e trasporti ferroviari) congiuntamente alla facilità relativa, espressa in termini di tempo, con cui raggiungere i Comuni definiti Poli, ossia in grado di offrire un’articolata offerta scolastica secondaria, un ospedale sede di DEA di I livello e almeno una stazione ferroviaria di categoria silver (fermate medio/piccole con traffico consistente superiore ai 2.500 passeggeri in media al giorno). Rilevante è anche la posta in gioco: dal 2014 il legislatore ha stanziato a favore della SNAI 591,2 milioni fino al 2023 di cui al luglio 2023 erano stati ripartiti 491,2 milioni di euro. La Missione 5, Componente 3, Investimento 1 del PNRR ha disposto 100 milioni di euro, con ulteriori 300 milioni di euro finanziati dal Fondo complementare per rafforzare la strategia delle are interne.
È questo il contesto in cui si inquadra il diffuso interesse sulle aree denominate “interne” del Paese – definizione alquanto imprecisa considerata anche l’inclusione di 35 Comuni delle Isole minori – concretizzatosi, da qualche anno a questa parte, in numerose iniziative tra pubblicazioni, dibattiti, convegni e festival. A questo proposito, segnaliamo una nuova, meritoria, pubblicazione dell’editore Radici di Capistrello (AQ), il Vocabolario delle Aree interne a cura di Nicholas Tomeo, dottorando, tra i fondatori della scuola dei piccoli Comuni di Castiglione Messer Marino (CH), dal sottotitolo “100 parole per l’uguaglianza dei territori” – 352 pagine, da inserire a pieno titolo nel vivace dibattito in corso.
In un periodo storico in cui è urgente la ricerca di senso e la complessità dei fenomeni ne rende difficile l’esatto inquadramento, questo vocabolario, per l’ampiezza dei temi trattati, ha la capacità ermeneutica di fornire al lettore definizioni rigorose su molti lemmi. Per citarne qualcuno, senza fare torto a quelli non menzionati: in Agricoltura l’attività agricola è considerata una possibilità di vita e di impresa sebbene “non idilliaca”; in Amministrazioni locali si denuncia la mancanza di una “visione prospettica che dia un senso al denaro al tempo e alle energie che a queste forme di autogoverno si destinano”; in Borghi, forse tra i lemmi più taglienti, si ritiene urgente spostare lo sguardo da “i borghi per i borghesi” verso osservazioni di quell’insieme complesso e composito di pratiche e storie che crepa il borgo e fa uscire il paese.
Se l’assenza della cultura in queste aree è considerata una mancanza di dignità, nel lemma Cultura si denuncia l’aporia di quelle aree in cui l’unico canale di accesso alla cultura è proprio uno dei nemici da combattere: Amazon. Nel lemma Economia si nota, amaramente, l’impotenza sia della Politica agricola comune (PAC) sia delle Politiche di coesione, incapaci di invertire la rotta del “disgregarsi del patto di coabitazione tra le comunità antropiche e le terre alte”. Segnalo anche Fragilità, Interno, Istruzione, Mobilità, Montagne, PNRR, Sanità, Terremoto, Terre comuni, Valorizzazione, Welfare e così via.
Il volume non si configura, dunque, solo come un vocabolario, ma come un dizionario, in cui i 60 autori, tutti attori esperti di questi territori, non si limitano alla definizione e all’inquadramento del singolo lemma ma sviluppano utili riflessioni e approfondimenti. Il tema, palesemente scivoloso, è trattato, a livello politico e talvolta accademico, con slogan semplici di sicuro effetto mediatico ma dalle modeste ricadute pratiche: demonizzazione della città, esaltazione del lavoro della terra e dell’allevamento, visione idilliaca del ritorno alle origini, enfasi sulla valorizzazione a fini turistici. Il curatore Tomeo non cade in questo errore, inquadra il fenomeno in una prospettiva fattuale, riuscendo a mediare tra le varie istanze con il risultato di un prezioso strumento di consultazione. Probabilmente mancano alcuni lemmi, propongo Demografia, Mappe o Numeri grazie ai quali si sarebbe contribuito a contestualizzare meglio il fenomeno dal punto di vista quantitativo e visivo.
In conclusione, una riflessione personale sui diritti di cittadinanza e sulla secolare fuga dalla campagna, un fenomeno iniziato almeno dal Basso Medioevo (non con l’industrializzazione quando diventarono superflui) e non appena il contesto la rendeva praticabile. Nel Medioevo era in voga lo slogan, adesso abusato, di matrice germanica “la città rende liberi”: dopo l’anno Mille la nostra Penisola, sebbene fosse un fenomeno “europeo”, vide la costruzione di numerose nuove città – tra le più importanti Alessandria (1168) oppure L’Aquila (1254) – dove i contadini in fuga dall’indebolito potere feudale, confluivano in aggregazioni in cui poter godere di nuovi diritti individuali.
Nel XIX secolo nel campidanese la vita agropastorale era talmente misera per cui i minatori, nonostante gli enormi rischi a cui andavano incontro, suscitavano invida tanto da essere soprannominati “minadoi dottoi” – ossia minatori dottori. È ancora nel XX secolo i contadini fuggivano dallo sfruttamento e dalla sopraffazione del notabilato locale, in cerca di lavoro, diritti e dignità personale. Il revival delle aree interne non sia immemore delle durissime condizioni della vita agropastorale, pena un’inaccettabile “mitizzazione”.