Junky. William Burroughs e la “via della roba”
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Se la roba è uno stile di vita, allora Burroughs ha raccontato quel modo di esistere sempre con distacco, proprio perché, paradossalmente, era coinvolto in prima persona. Junky è un libro crudo, una fredda cronaca sulla tossicodipendenza, sulla realtà dei sobborghi, sui traffici, sul giro di vite che la droga coinvolge. Apparso nel 1953 dopo mille correzioni e altrettante irrisolte perplessità, lo scrittore americano descrive la sua e altrui esperienza.
Lo stile minimalista, senza edulcoranti, è un manifesto alla scrittura irregolare e libera, tant’è che lo scrittore americano fu soprannominato lo Jean Genet degli Stati Uniti. Il primo contatto con la roba, zio Bill lo ebbe tra il 1944 e il 1945, quando i rifornimenti erano a singhiozzo, perché la Seconda Guerra Mondiale produceva effetti anche sul mercato dei narcotici.
Certamente, Burroughs parla di un’epoca in cui tutto era diverso. Non c’erano narcos, cartelli e altro, ma che la roba avesse già invaso la vita di molti, o che la droga fosse una “tendenza sociale”, era già palese. Per quanto qualcuno voglia dirigere il discorso su lidi moralistici, tra queste pagine né si invita la gente a provare né si dice di stare alla larga da qualsiasi sostanza.
Viene descritta un’esperienza e nient’altro; c’è qui un racconto di vita che ha ispirato altri scrittori, e non solo della Beat Generation. Alla fine, provate tutte le sintesi possibili e immaginabili, saggiati tutti i sintomi, anche quelli dell’astinenza, Burroughs va alla ricerca di Yage, quello stupefacente naturale, conosciuto dalle popolazioni indigene del Centro America, che estende la percezione.
Nella postfazione al suo Un oscuro scrutare, Philip Dick paragona i drogati ai bambini che giocano a qualcosa di pericoloso, che perseverano anche se si sono scottati. Burroughs non la mette su questo piano, anzi non ne privilegia nessuno se non quello del narratore che racconta. A volte sembra a favore e a volte sembra contro la roba, ma in sostanza sono solo prove della poca stabilità mentale che il drogato sperimenta man mano che si intossica. Infatti, l’unico chiodo fisso è farsi.
Anche Oliver Harris, curatore del volume pubblicato da Adelphi, ricostruendo le tappe che hanno portato alla redazione del romanzo, sottolinea come questo libro fosse, nell’intento dell’autore, una testimonianza diretta; che poi sia diventato altro, questo è dovuto al giro magico che alcune opere fanno, in quanto sono destinate a incunearsi nel patrimonio dell’umanità.
Ad esempio, Burroughs cita pochissimo, limitandosi a sporadici accadimenti, i suoi incontri omosessuali, come se volesse tenere distinti gli argomenti. Infatti, è stesso lui a dire che Queer, il romanzo dedicato al tema, è stato scritto contemporaneamente a Junky, proprio con l’intento di distrarlo dalla pesantezza che si innescava ogni volta che parlava della roba.
Junky è quindi un romanzo che pone l’esperienza al servizio della letteratura, creando un’opera genuina, nella quale l’autore né si celebra né si degrada, semplicemente si mostra per non sparire più.