Chi ricorda ancora il “verbicarismo” calabrese?
Articolo di Saverio Di Giorno
Chi la vede da lontano parla di una terra arretrata, criminale, gelosa e testarda. Sanguinaria. Chi ci si è addentrato la vede bella e dura, accogliente e diffidente. Sanguigna. Se ne potrà dire dell’indifferenza, dell’assuefazione, del provincialismo. Eppure, più di un secolo fa, alla Calabria poteva essere associato un termine che aveva a che fare con la rivolta. E con la rivolta violenta. Un comune era divenuto un aggettivo usato per indicare un atteggiamento rivoltoso e violento. Non un territorio a caso, ma uno della provincia di Cosenza: Verbicaro, da cui “verbicarismo”.
Se si volesse raccontare in due parole il motivo per cui nel 1911 Verbicaro si rivoltò al punto che il governo Giolitti decise di inviare l’esercito ad occupare il paese per due anni, si potrebbe dire: una questione di sanità. Eventi che raccontano tanto e non solo delle ragioni storiche; Verbicaro può diventare un topos, una mappa che racconta molto del rapporto delle istituzioni italiane con il Sud Italia. Felice Spingola, nel 1975, a soli 23 anni divenne per la prima volta sindaco del paese. Il più giovane d’Italia. Una storia di impegno e di lotta, nella sinistra che affondava con i calzoni nella terra e dibatteva di cambiamenti e nuovi mondi. Suo il libro “La paura di Verbicaro: storia di una rivolta del sud”.
La Calabria come un villaggio africano
Il 1911 era l’anno della Libia, forse per questo le cronache del tempo – pescando in un facile immaginario – descrivevano il profondo Sud con queste parole: “sembra arrivare in un villaggio africano”. Le condizioni probabilmente erano difficili: poche fognature, analfabetismo oltre il 90%. In quell’estate si aggiunge anche il colera e la reazione delle persone del luogo sembra quella descritta da Manzoni: parte la caccia all’untore. La risposta del governo? Omettere la parola “colera” dai rapporti, far finta di nulla, i morti restano insepolti, ma continuano ad ammassarsi. Servono medicinali, condizioni igieniche migliori: arriva l’esercito. La popolazione si spaventa o forse trova conferma delle proprie convinzioni, ma in ogni caso pensa a una congiura di notabili e autorità. Quando i morti arrivano a centinaia in una nottata, decide di ribellarsi. Si radunano con forche, zappe, assaltano il municipio. Le scene sono grottesche: qualche funzionario si rifugia sul tetto, qualcuno scappa a piedi per chilometri. La risposta del governo è però quella di una repressione “esemplare”. Si spara sulla folla, una parte della popolazione si rifugia nelle foreste e sui monti, altri vengono arrestati. L’esercito rimarrà nella cittadina fino al 1913. Qualcuno prova a obiettare, ad analizzare – Salvemini ad esempio – che la soluzione forse più civile sarebbe quella di acquedotti, di infrastrutture e via di questo passo. Per molti decenni il termine verbicarismo è stato associato ad atteggiamenti violenti, rivoltosi, dovuti a primitività di istinti e di intenti. Quella rivolta, sì violenta, non era certo per una questione di primitività, era una reazione tanto forte quanto spontanea. Poveri, contadini, anche se è difficile leggerci oltre: coscienza di classe, rivendicazione politica. Semplicemente era il desiderio di farsi sentire e certamente la paura.
La Calabria è ancora un villaggio africano?
È sempre pericoloso tracciare parallelismi tra periodi storici. Pericoloso perché troppo facile. Il Covid non è il colera e le condizioni sono migliorate, ma gli standard restano comunque molto bassi. I LEA (livelli essenziali di assistenza) non sono garantiti e gli ospedali pubblici restano chiusi. Permane un certo razzismo istituzionale (almeno di fatto). Ma allora perché è invece cambiata la reazione dei cittadini? Non ci si possono augurare forche e violenze, ma nemmeno le palpebre pesanti che sonnecchiano e si chiudono come serrande senza accigliarsi, spalancarsi. Nulla. Spingola è un osservatore attento e invita alla cautela. Ricorda il vecchio esercizio delle analisi di sistema, cadute in disuso a favore di un individualismo che non trova né colpevoli né soluzioni: “La popolazione non aveva strumenti culturali. Ha solo reagito alla paura. Negli anni si sono susseguiti vari episodi. Io penso che non siano cambiati i calabresi. Penso piuttosto che siano stati soppressi spazi e luoghi di confronto. I calabresi ci sono sempre, ma non sanno dove portare queste rimostranze e nemmeno a chi. Occorre avere interlocutori credibili. Fino a venti anni fa, nei proclami dei partiti e degli esponenti si ripeteva la parola partecipazione. Questa parola è completamente scomparsa. D’altra parte, con chi e su cosa possono confrontarsi?”
In politica da quando aveva 23 anni, dice: “l’età non è una categoria della politica”, forse nemmeno il tempo lo è: il tempo è politica. Ora a 23 anni si è in una doppia nelle periferie di una città cercando di finire l’Università o dietro un bancone facendo lavoretti. Si è perso troppo tempo e politica in queste notti. Troppo. Ma i corpi ammassati non sono visibili e nemmeno gli eserciti. E nessuno fa nulla.