Marilia Mazzeo e Venezia. Alla ricerca di sé
Recensione di Ginevra Amadio
Vien facile pensare a Brodskij scorrendo le pagine di Venezia e io di Marilia Mazzeo, un volumetto agile pubblicato da Helvetia Editrice, non a caso incluso nella collana “Taccuini d’autore” che fa del libro un oggetto destinato alla consultazione e, se possibile, alla condivisione, avendo in fondo alcune pagine bianche, che possono essere riempite, appuntate, lasciate in eredità a chi vorrà consultarle in futuro.
Al centro c’è l’autrice, la sua vita a Venezia da eterna “foresta”, innamorata di una città in equilibrio tra terra e mare, che l’ha accolta con un pizzico di ritrosia, celando nel riserbo un’anima prismatica, che dona senza eccedere. C’è tutta Mazzeo in queste pagine, la sua attenzione alle forme che deriva dagli studi di Architettura, lo sguardo acuto sulle contraddizioni del luogo, sulla «forza centrifuga che spinge fuori dal centro» ma si infrange contro la fascinazione per ciò che è bello e instabile.
Una città non per tutti, Venezia, che occorre vivere per comprendere, attraversare nelle difficoltà del quotidiano per toglierle la patina delle cartoline, la polvere delle cose posticce. Questo fa l’autrice, narrando di sé a partire dal luogo, trovando nella diaristica il miglior mezzo di espressione in accordo con quel «continuo interrogarsi sulla propria identità presente e passata» di cui parlava Asor Rosa in rapporto alla memorialistica.
Nella sua voce si dilata quella componente che lega parti di sé all’espressione più generale di un luogo che è stratificazioni di epoche, miniera di immagini sovrapposte e contraddittorie esse stesse. Storie di arrivi e partenze, di fughe esorcizzate, infatuazioni e malattie d’amore, perché solo l’amore – con le sue infinite sfumature – rende sopportabile ogni affanno, risolvibile ogni dubbio.
E così il passo di Marilia è quello di una flâneur in perenne esplorazione, persa tra calli e corti alla ricerca di un senso del luogo che il geografo Yi – Fu Tuan collega alla singolarità dell’esperienza, a quell’idea che gli spazi fisici acquistino caratteristiche uniche nel corso del tempo. Ecco allora Venezia svuotata, irriconoscibile nei mesi del lockdown dopo anni di sovraffollamento feroce, una città onirica e sospesa, che pone tutti alla giusta distanza avendo il germe della fragilità, l’urgenza di sopravvivere senza perdere la sua natura.
«Questa era Venezia, la bella lusinghiera e ambigua» scriveva Thomas Mann nel celebre racconto trasposto su schermo da Luchino Visconti. «La città metà fiaba e metà trappola» che Marilia Mazzeo racconta con amore per la vita, per la luce, per i gatti, i tetti, i bambini che giocano intabarrati. Uno sguardo privo di giudizio, che cattura l’inafferrabile verità del luogo a partire da sé.