La vecchiaia del bambino Matteo e l’interpretazione dell’EsserCi

La vecchiaia del bambino Matteo e l’interpretazione dell’EsserCi

Recensione di Martino Ciano. In copertina: “La vecchiaia del bambino Matteo” di Angelo Lumelli, Qed Edizioni, 2024

“La vecchia del bambino Matteo” comincia da un vagone abbandonato, metafora di un viaggio che si è concluso per dare spazio, forse, al riposo e alla meditazione. È adesso, da questa stasi, che può iniziarne un altro, quello a ritroso, nelle proprie esperienze, ripercorrendo i propri attraversamenti. Ma prima bisogna togliere via gli occhiali da sole, perché è necessario essere accecati anche dal panorama.

Ed ecco Matteo, Ernestino e Gustavo, tre bambini che di colpo sono diventati adulti e che sanno di aver perduto l’innocenza. Sono consapevoli che mai più la ritroveranno, sono però convinti che qualcosa possa essere salvato.

La storia si svolge tra atmosfere bucoliche di matrice piemontese e moderne metropoli del Nord Italia. A guidare i tre nelle loro peripezie c’è lo stupore, quell’elemento senza cui non ci sarebbe l’amore per la conoscenza. E come filosofi si comportano questi uomini dalle età cangianti, perché sanno essere a volte bambini e a volte vecchi, in alcuni casi adulti e in altri adolescenti. Non sono spaventati dalla vita, ma meravigliati persino dalla guerra. Le bombe fischiettano, gli aerei sono aquiloni, i capelli di qualcuno si possono impigliare tra le macerie.

Poi tutto finisce, torna una sorta di pace…

Appare a loro la maestra Concetta, così disinibita e ferrea da stuzzicare quella libido che innesca lo stupore di cui abbiamo detto nelle prime righe. Pian piano, però, tutto si affievolisce, perché la vita corrompe e manda al macero ciò che giudica vecchio e inutilizzabile. Il dopoguerra è opulenza e soddisfacimento del desiderio, è accumulo e volontà di eterna felicità. Forse, proprio da questo nasce quella pesante e pressante idea della vecchiaia di cui tutti e tre sembrano essere affetti?

“La vecchiaia del bambino Matteo” di Angelo Lumelli, conosciuto per essere stato uno dei poeti della scuola milanese che negli anni Settanta infiammò il dibattito sul rapporto tra arte e modernità, ha impiegato trent’anni per scrivere questo romanzo in cui nulla è lasciato al caso.

Uno stile vivace e allegorico, in cui la parola si tuffa e duella tra contraddittori significati, guida le 235 pagine di questo romanzo non forzatamente, ma necessariamente sperimentale, in quanto non si può parlare di un periodo come quello del dopoguerra italiano secondo una sola chiave di lettura. Bisogna infatti penetrare la coscienza di quel tempo che muterà per sempre l’Italia e l’Europa; bisogna uscire dai “luoghi comuni”, quindi distruggere e riunire i frammenti affinché un’opera nuova venga alla luce.

Per Matteo infatti, il passaggio dal mondo della campagna a quello metropolitano è simboleggiato dalla fuga senza meta di tutti i bovini d’Europa. Una folle corsa innescata dall’illusione che tutto sia riproducibile, persino le esperienze o l’interpretazione di esse. Ecco perché Lumelli ci stordisce positivamente con le sue pagine, perché la storia non è uguale per tutti, ma è diversa per ciascuno individuo. La vita è sperimentazione e solo attraverso il linguaggio si può costruire la realtà.

Poi tutto scorre, come sempre è avvenuto…

Il narratore che racconta della sua storia, di Matteo e dei suoi amici è proprio quel personaggio che con vivacità ha osservato i cambiamenti senza lasciarsi travolgere da essi; forse è l’unico che non è invecchiato, ma è rimasto sempre bambino. Ma una domanda ci suggerisce velatamente l’autore: è davvero così importante non invecchiare?

Rimanere bambini vuole dire anche giocare con la propria ingenuità; Matteo per esempio, quando viene sgridato dalla maestra, scopre anche il suo nome “e – dice – da quel giorno si nasconderà dietro di esso”; un passaggio emblematico, perché il nome identifica solo in superficie il nostro “esserci nel mondo”, il resto lavora incessantemente e silenziosamente nel nostro inconscio ed è impossibile anche per noi scovarlo.

Il nostro nome è quindi un modo ingannevole attraverso cui presentarci, ma è anche la maschera migliore con la quale difendiamo la nostra unicità. Di fronte a una rappresentazione così forte e audace, capiamo fin dove dovremo spingerci per viaggiare insieme a Matteo, accettando di salire su quel vagone abbandonato che, magari, potrebbe essere assunto in cielo.

 

Post correlati