L’uomo senza riposo. Cinque domande a Lucrezia Lombardo sul suo saggio
Intervista di Martino Ciano. Le foto che trovate in questo articolo sono state fornite da Lucrezia Lombardo
Qual è la differenza che separa “l’essere umano cosciente” dall’intelligenza artificiale? Quale il destino dell’uomo nell’odierna epoca di crisi, in cui ogni certezza pare erodersi? Sono queste alcune delle cruciali domande a cui il saggio “L’uomo senza riposo” intende rispondere. Intanto, abbiamo voluto intervistare l’autrice, Lucrezia Lombardo. Il libro è stato pubblicato a settembre 2024 dalla casa editrice Gfe.
Buona lettura.
Nel tuo saggio “L’uomo senza riposo” sembra quasi che l’individuo sia diventato un essere privo di consapevolezza, in quanto non si rende conto di essere ormai “mero concorrente” di un gioco forzato, anzi truccato? Sei d’accordo?
Come affermi, ne “L’uomo senza riposo”, l’individuo è descritto nella propria letargia, un atteggiamento d’inconsapevolezza indotto dal sistema socio-politico-economico e culturale odierno. Un sistema di stampo biocapitalistico e kratoscientifico. Il secondo concetto, nello specifico, si riferisce, all’interno della mia ricerca, alla dinamica per cui il potere – degenerato ormai a dominio – e la tecnica si intrecciano allo scopo d’instaurare un controllo omnipervasivo sulle vite degli individui, resettandone non soltanto la psiche, bensì la coscienza (pensiamo, in tal senso, al ruolo dei mezzi di comunicazione). La coscienza è il substrato primario dal quale la psiche trae origine ed è la struttura che rende possibile lo sviluppo del “discernimento morale” nel soggetto. Difatti, nella misura in cui l’individuo perde il contatto con la propria coscienza, perde anche la relazione intima con se stesso, smarrendo la facoltà di orientarsi nel mondo attraverso la libertà. Non vi è autentica libertà, del resto, senza precedente capacità di giudizio.
L’uomo senza riposo, allora, è qualcuno che ha smarrito la facoltà di connettersi con la propria coscienza, subendo così le conseguenze di tale rimozione in termini di disorientamento e infelicità. Per parlare di felicità, difatti, occorre che nel singolo sia attiva la capacità di scegliere, da cui dipende l’uso della libertà. E, laddove quest’ultima viene meno, è la fioritura stessa della natura umana che risulta amputata, tanto che il soggetto è ridotto a merce, a macchina, a prodotto e meccanismo di un ingranaggio. Le cause di questo reset morale – quindi cognitivo – sono molteplici. Tuttavia, la principale conseguenza di esso è riassumibile nei termini di una “riprogrammazione” dell’individuo, in quanto ente soggiogato dalla manipolazione sociale e privo della capacità di pensare criticamente, dunque, della capacità di scegliere e agire consapevolmente sia sul piano personale, che collettivo. S’impongono, così, modelli imitativi e identità collettive -veicolati anche dai mass-media- che schiacciano la fioritura individuale, solo “luogo” in cui si radica la felicità.
Quando la struttura sociale si trasforma da luogo di convivenza, in meccanismo di dominio, del resto, l’individuo perde la propria ricchezza umana, trasformandosi in uno strumento di produzione, in mezzo funzionale alla dinamica economica e al perdurare di un sistema che non vuole l’emancipazione dei singoli, né la loro valorizzazione in termini di benessere psicologico e di riuscita esistenziale.
La destrutturazione valoriale, come la definisci tu, implica tutto; l’uomo ha perso non solo l’orientamento, ma anche l’orizzonte; persino i significati mutano velocemente. Secondo te, anche questi fattori stanno causando le “derive autoritarie” dei popoli europei?
Il crollo dei valori implica il tramonto di un orizzonte condiviso sul piano collettivo e di un orizzonte di senso sul piano individuale. Senza un orizzonte condiviso entra in crisi la possibilità di una pacifica convivenza tra individui e, con essa, la democrazia e i diritti inalienabili che la fondano. Al contempo, senza un orizzonte di senso sul piano individuale, il singolo smarrisce se stesso, perdendo la capacità del discernimento e l’uso responsabile della libertà. Inoltre, tale crollo dei valori è anche “un collasso della speranza”: il futuro, cioè, non è più concepito secondo una progettualità costruttiva, bensì come dimensione labile e della quale avere paura; in alternativa, esso è visto come fonte di ansia incontrollabile per un soggetto schiacciato dalle prestazioni che è chiamato a compiere.
Il crollo dei valori, allora, rimanda chiaramente allo smarrimento di coordinate guida e punti di riferimento che siano in grado di fornire ai soggetti, e alle società, quella stabilità di cui vi sarebbe, ancora oggi, un ancestrale bisogno. Tali punti di riferimento, un tempo erano costituiti da istituzioni egemoni – penso alla famiglia, alla scuola, alla Chiesa e così via – in seguito si è cercato di fare in modo che l’individuo ricercasse in se stesso i valori a cui aderire (penso al concetto nietzschiano di trasvalutazione dei valori). Tuttavia, tale processo di introiezione dei valori non è riuscito perfettamente, in quanto ciascuno si è fatto portatore della propria percezione del reale. In tale contesto di relativismo radicale, i significati – come giustamente affermi – mutano a una velocità incessante e ogni prospettiva si rivela parziale, temporanea, provvisoria, determinando l’appiattimento “sul medesimo livello” delle plurali teorie, ridotte adesso a meri punti di vista.
Non è un caso che la società dei nostri giorni sia instabile, perennemente in evoluzione e che, in essa, il soggetto provi una sorta d’impossibilità a incidere su dinamiche sempre più impersonali. Paradossalmente, tale instabilità determina negli individui un bisogno di rimando di stabilità radicale, che può condurre all’avvento di nuovi autoritarismi che incarnino un modello alternativo rispetto alla precarietà contemporanea, derivante dalla globalizzazione e dai processi socio-economici e politici in corso.
È vero altresì, che la preoccupante deriva autoritaria che si prospetta, è connessa alla perdita di peso politico degli individui, sempre più esclusi dalle dinamiche decisionali, marginalizzati, e ridotti alla mera sopravvivenza (la precarietà si fa, infatti, anche materiale e lavorativa). Gli individui, inoltre, perdono la capacità di sviluppare un pensiero autonomo, nella misura in cui i processi di manipolazione – anzitutto consumistici, quindi propagandistico-politici e mediatici – hanno per scopo quello di programmare soggetti in serie, tutti orientati alla produzione e all’auto-realizzazione edonistica.
L’individuo inconsapevole odierno, allora, è un soggetto che non sa distinguere ciò che è attendibile, da ciò che non lo è, e che non è in grado d’interrogarsi. Questo è il giusto presupposto per derive autoritarie, nelle quali l’egemonia è traslata dalla base popolare, a cerchie oligarchiche, mentre le masse sono abbandonate all’inconsapevolezza e alla lotta per la sopravvivenza.
Cosa c’entra Cristo con il tuo saggio? Leggi la sua lezione da un punto di vista storico?
Giusta domanda. Il saggio si apre infatti con la figura di Cristo e con il passaggio, tratto dal Vangelo, nel quale Gesù interroga la guardia che lo percuote, per capire il perché di tale violenza. E la cosa interessante è che, il dialogo tra Cristo e la guardia, mette in luce proprio la gratuità del brutale gesto. Ciò che più m’interessava, era proprio avviare la riflessione a partire dal tema della violenza e della sua origine.
Come nasce l’abuso? E quali gli intimi motivi che spingono a compierlo? Erano queste alcune delle domande a cui volevo tentare di dare una risposta. La violenza, difatti, si rivela sempre immotivata e assurda – questo è il punto!- e la domanda provocatoria che Cristo pone alla guardia che lo percuote, centra la questione.
Difatti, nella misura in cui la violenza è sempre assurda – e le motivazioni che tentano di giustificarla sono sempre scuse – le intime cause di essa vanno ricercate in profondità, nella psiche e nel sentire del soggetto che compie gesti di abuso. Ancor più, ciò è vero in un contesto socio-politico, come quello odierno, caratterizzato da una violenza diffusa, in cui il progresso tecnologico non va di pari passo con la crescita nella capacità di una convivenza pacifica. Tant’è che violenza e paura divengono oggi vere e proprie componenti del linguaggio e della prassi politica, caratterizzata com’è da una crescente entropia e dal proliferare di plurali conflitti, anche se, per adesso, esterni “ai confini” dell’Occidente.
La figura di Cristo, allora, era necessaria per arrivare a parlare del tema del discernimento, nella misura in cui, solo coloro che non hanno contatto con la propria parte morale, cedono alla spirale violenta, facendo prevalere sulla natura empatico-relazionale e razionale, l’impulso dell’appropriazione, il dominio e il correlato bisogno dell’altrui obbedienza. L’uomo che abbia rimosso la parte morale, e che abbia quindi perduto la propria stabilità interiore è, allora, un soggetto incline alla violenza e bisognoso di schiacciare gli altri per trovare un senso alla propria vacua esistenza.
Il Cristo, con la sua domanda, smaschera questo meccanismo, che è poi la radice del dominio biopolitico e della deriva autoritaria, che le nostre democrazie inaridite stanno subendo.
Il tuo saggio non parla di riposo dal punto di vista fisico, questo mi sembra lampante, ma di quello dello spirito. Ma come possono mente e anima “riposare” davanti ai continui impulsi della società contemporanea che invitano all’azione frenetica?
È proprio questo il punto: nella misura in cui viviamo in una realtà frenetica, che con stimoli continui sollecita il desiderio e la volontà, diviene fondamentale, per l’individuo, ritagliarsi uno spazio sicuro, nel quale ascoltare il silenzio e ritrovare se stesso, esercitando l’antica arte del discernimento, che proprio la velocità contemporanea vorrebbe cancellare. E, poiché il mondo muta a una velocità inafferrabile, lasciando l’individuo perennemente frustrato e con un senso d’incompletezza, il luogo entro cui potersi riposare deve diventare interiore e coincidere con lo spirito, a cui si accede a partire da una mente tranquilla, come la stessa tradizione orientale – e teologica in generale – insegna da secoli.
Per approdare a tale luogo interiore di quiete, occorre, anzitutto, apprendere come dominare la mente e ripulirla dai desideri indotti e dalle ambizioni frustranti e mimetiche, che fanno sentire gli uomini e le donne di oggi perennemente inadeguati, costringendoli a realizzare performance sempre più faticose e competitive. Il luogo del riposo interiore abbisogna allora, in primis, di tempo e che il soggetto torni padrone di esso, senza farsene dominare.
A un simile luogo interiore si può giungere solo grazie ad alcuni esercizi: la contemplazione e lo studio, intesi come attività da condurre nella calma e nel silenzio; il contatto con la natura intesa come contesto in cui farsi osservatore vigile e la relazione autentica con gli altri. Una relazione che richiede anche di scomodarsi per gli altri e, talvolta, di sacrificarsi per il bene altrui (compassione): tutte azioni che aiutano a decentrarsi dal proprio egoismo edonistico.
La frenesia e la continua sollecitazione dei desideri che il singolo subisce, di contro, sono funzionali acché l’individuo dimentichi la capacità di relazionarsi intimamente con se stesso e quella di costruire rapporti autentici con gli altri, in modo tale da perdere la capacità di considerare il mondo come un ambiente accogliente e del quale ciascuno è parte viva.
Lucrezia Lombardo quanto si sente riposata, o quanto prova a non esaurire tutte le proprie energie? Chiedo questo perché molti autori, senza farne troppo mistero, scrivono e indagano su situazioni di cui si sentono tanto protagonisti quanto vittime.
Bellissima domanda!
Devo dire che l’arte del riposo è – oggi più che mai – qualcosa che si apprende, poiché la nostra esistenza postmoderna non segue più il ritmo delle stagioni, né conosce la stabilità del lavoro fisso, di relazioni durature e così via… Dunque, entro tale contesto da cui non è possibile – né giusto – astrarsi, anch’io, al pari di chiunque altro, sono sulla via dell’apprendimento dell’arte del riposo.
Non è tuttavia facile sviluppare tale arte e, soprattutto, riuscire a mantenere la mente libera dai condizionamenti esterni, che concernono preoccupazioni, paure, problemi economici e relazionali, finti desideri e ambizioni mosse da invidia e rivalità… Eppure, il riposo è, anzitutto, quiete della mente, quindi dello spirito: solo quando la mente si libera da ciò che non le appartiene davvero, essa riesce ad aprirsi alla vita e al mondo in modo nuovo e gioioso.
Questo nuovo modo di vivere si caratterizza per la fiducia e per l’apertura, che sostituisce adesso la chiusura della paura. Inoltre, in questo nuovo modo di vivere, le relazioni – con noi stessi e con gli altri – tornano a fiorire. Devo dire, poi, che che il tema del riposo è di mio interesse, poiché volevo giungere a elaborare una vera e propria filosofia del riposo, in quanto di esso – io per prima – ho sentito a lungo la mancanza.
Una vita e una società che costringe tutti noi a lottare quotidianamente per la sopravvivenza, per il lavoro, per il riconoscimento, per il merito, per relazioni stabili, e in cui normali strumenti per una vita dignitosa sono divenuti orami eccezionali (penso al lavoro, a una casa, a relazioni durature, etc), occorre ripartire proprio da no istessi e dal recupero della capacità di guardare con maggiore oggettività le cose, senza farsi sommergere da esse, né schiacciare dallo scenario tragico in cui siamo catapultati… Ritorno quindi, ancora una volta, al tema fondamentale del discernimento, che è, anzitutto, capacità di ascoltarsi e ascoltare, riconoscendo ciò che è davvero importante rispetto a ciò che non lo è (penso, per esempio, ai tanti desideri sociali indotti per cui ci danniamo, o ai modelli sociali imposti con una sottile manipolazione e per i quali lottiamo competitivamente gli uni contro gli altri).