Aforismi della pittura cieca
Racconto di Giuseppe Bella. In copertina: “Polifonie” di Turi Sottile, anno 2001. Foto fornita dall’autore del racconto
Scorticare la realtà – questo il mio sogno. Dalle cose visibili grattar via l’epidermide, per osservarne i muscoli messi a nudo, quei fasci poderosi, e i reticoli sovrapposti di arterie e vene. Percepire la voce sommessa degli oggetti, scorgendo non già sulla retina le loro immagini dileguanti, ma nel circolo del sangue.
Infrangere, infine, l’illusione delle forme, confidando nel caos delle energie ineducabili. Per anni ho perseguito questo sogno, con esiti incerti, finché nei miei occhi non cominciò a rabbuiare. Sulle prime si trattò, per paradosso, di un lume più marcato, tanto che gli oggetti si offrivano allo sguardo con una brillantezza allucinata: presto però questo fulgore, più che precisare sfocava ogni contorno, e il mio sguardo si riempiva di una nebbia in cui sagome fluttuavano – forme dall’identità malcerta.
L’oscurità.
Scomparvero i colori, non mi era più possibile vederli ma, da allora, cominciai ad averne una cognizione più viscerale. L’immaginazione è una docile serva. Se a esempio penso al rosso, non è che visualizzi l’entità di quel colore in una sua particolare gradazione o intensità o sfumatura; ma quel rosso, io lo sento; ne percepisco il fiato sulla pelle, le sue onde increspano il mio sangue.
È istantaneo il passaggio alla pittura.
Non dispongo della vista: ma l’istinto mi guida, l’esperienza soccorre quando l’afflato manca. L’odore non mi tradisce: per bizzarro che ciò sia, ogni diverso colore produce nel mio olfatto un effetto suo proprio, qualcosa di sottile, appena un fremito nelle narici, l’olezzo di un fantasma cromatico, quale io percepisco annidato in fondo al caratteri-stico sentore degli acrilici.
Il tatto è la mia ancella; di un determinato colore, nessuna caratteristica tangibile sfugge alla sensibilità dei polpastrelli. La mia pittura nasce dal mio corpo. Vedo con i visceri, ragiono con la pelle. I colori sono fasci di energie travolgenti, di cui è segretamente innervato l’intero mondo. Attingo questa verità attraverso l’intelligenza del mio sangue.
Talvolta una vampa di calore mi investe in volto, preannunciando l’urto di un fascio giallo. Se invece mi coglie il freddo, e tremo da capo a piedi, e anche il mio sangue si fa di ghiaccio, ecco che il nero effonde intorno a me il suo fiato d’abisso. Il bianco è una musica che invade il mio ventre. La mia mente è sconfinata, ha l’esatta estensione dell’universo.
Ho esplorato gli spazi illimitati che si distendono nel cosmo tra galassie incandescenti. Non esiste un solo punto nell’universo che sia cavo e tenebroso; gli sterminati spazi interstellari vibrano di corpuscoli, lampeggiano di infinite luci. Le radiazioni cosmiche, come io le concepisco, sono sciabolate di bianco, di rosso, di nero, di azzurro; i protoni sono colori caldi.
La mia pittura riflette la frenesia delle sfere celesti. A volte, al mio udito giunge l’eco dell’agonia degli astri. Il mio cuore è trafitto dall’angoscia emanata dalle stelle; esse tremano, e piangono, e strepitano precipitando nel maelström di un buco oscuro. Taluni giorni percepisco solo stridore e lotta.
Comunque, quando dipingo, la morte è di spalle.