Una vita per bene: di padre in figlia. Intervista a Silvia Palombi

Una vita per bene: di padre in figlia. Intervista a Silvia Palombi

Articolo e intervista di Martino Ciano. In copertina: “Una vita perbene” di Piergiuseppe Palombi, Palombi editori, 2024

“Una vita perbene” di Piergiuseppe Palombi racconta dell’autore, del suo viaggio attraverso la vita, dei momenti difficili e di quelli ricchi di gioia. È un memoir ironico, vivace, che mette in mostra una caratteristica “novecentesca”: quella del “lottare affinché ogni cosa acquisti nuova dignità”. Siamo forse oggi così assuefatti dal “tutto e subito” che l’attesa è vissuta come un’agonia, figuriamoci lottare strenuamente pur sapendo che tutto potrebbe essere inutile.

Piergiuseppe è nato nel 1919 ed è morto nel 2009. Novant’anni non si riassumono in poche pagine, ma dall’essenza delle parole arriva forte un messaggio per tutti: la vita va attraversata con semplicità. A dirlo è proprio una persona che ha vissuto i migliori anni della sua esistenza sotto il Fascismo e tra le macerie della guerra. Insomma, qualcosa che per fortuna va al di là della nostra comprensione. È stata la figlia, Silvia, che a distanza di anni dalla morte di Piergiuseppe ha deciso di fare qualcosa in più di quegli “appunti” che avrebbero rischiato di finire al macero.

E proprio a Silvia chiediamo subito: è stata una necessità?

Non di appunti si trattava, diciamo che era un rapporto particolarmente articolato (sul quale ho fatto solo un leggerissimo editing) che papà mi ha dato poco tempo prima di cambiare bruscamente pianeta. Sono cresciuta vedendolo scrivere sul suo lavoro in ambito medico-medicinale, da responsabile di alcuni mercati esteri della Carlo Erba – centro America, Libia, Libano, Romania, Belgio e Svizzera – al rientro da ogni missione faceva una relazione dettagliata della situazione che aveva trovato. Era abituato a mettere nero su bianco. Ho trovato specchietti, tabelle, tavole sinottiche (era bravissimo, io una schiappa) tabelle con le auto che aveva cambiato nel corso della vita, dei paesi visitati, dei viaggi fatti, senza dubbio non immaginava che il suo scritto si sarebbe trasformato in un libro e io stessa non ho intuito subito che avrebbe potuto esserlo.

“Una vita perbene” potrebbe sembrare il titolo di un convegno democristiano, invece è la storia di un uomo che di sicuro non è stato accomodante. In quest’ottica, vivere per bene vuol dire cercare di avvicinarsi il più possibile a sé stessi?

Dal suo racconto non traspare quanto gli è costato educarsi diverso da suo padre, un uomo rigido, tranchant, iracondo al quale comunque ha voluto bene. Nonno è morto che avevo nove anni, i miei ricordi si fermano presto e sono tutti dolci, posso dire di averlo conosciuto negli anni attraverso quello che papà raccontava, per esempio che davanti al quadro della Madonna che avevano in capo al letto alla Palombella, creava florilegi inimmaginabili (ai quali io non ho mai assistito) e papà pur essendo cresciuto con quella normalità ha sempre cercato di essere altro e bestemmiare il meno possibile. Penso che il sé stesso che voleva essere fosse prima di tutto differente dal padre. Avrebbe voluto essere un medico ma non ha potuto, nel libro racconta il motivo che gli ha creato un rammarico che lo ha accompagnato, non ossessivamente ma costantemente, per tutta la vita.

Nessuna velleità letteraria, però questo libro ha molto da dire, come tutte le vite che vengono affrontate con passionalità. Scrivere è stata una necessità per tuo padre o una risposta alla latente paura di essere uno tra i tanti?

No nessun timore: scrivere per lui era un’abitudine e lo era anche per mamma (che scriveva a precipizio mentre papà correggeva, ripensava. I suoi diari sono nella lista d’onore del Premio Pieve Saverio Tutino 2018 della Fondazione Archivio diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, ideato e fondato nel 1984 proprio da Tutino, un posto magico che consiglio a tutti di visitare). Era importante mettere in ordine e fermare i ricordi per il tempo in cui la memoria sarebbe fatalmente svanita e mi viene in mente, mentre sto scrivendo, che probabilmente lo ha fatto per me; se poi aggiungi che mamma lavorava al Mondo di Pannunzio, ecco che la parola scritta da noi era di casa. Leggevano tanto tutti e due e penso che i grandi lettori a un certo punto prendono la penna in mano o cominciano a picchiare i tasti di una macchina da scrivere. 1919-2009 è stato scritto su un’Olivetti 22 nella casa del lago, a Milano scriveva sulla Lexikon 80, sempre Olivetti, che adesso è con me a Trieste (ci ho scritto tanto anch’io da ragazza).

Mai come nel Novecento intere generazioni hanno conosciuto la potenza dell’annientamento e la forza del benessere. È come se dopo tanto lottare sia arrivata la giusta ricompensa. Ma alla fine tuo padre ci credeva a tutto questo “benessere” o era conscio del fatto che “fosse solo il sintomo di qualcosa di irrisolto”?

La giusta ricompensa e poi, per fortuna lentamente ma inesorabilmente, la disillusione perché lui, e tanti altri a onor del vero, si sono resi conto con largo anticipo della deriva che avrebbe preso la diffusione di un benessere a persone ancora non in possesso degli strumenti per servirsene senza deragliare. Un esempio banale, uno stereotipo anche un po’ sciocco ma è per spiegarsi meglio: la funivia per salire sul Monte Bianco ha messo tutti, senza eccezioni, in grado di arrivare sulla vetta più alta d’Italia tanto da farci arrivare signore equipaggiate con sandaletti coi tacchi. Quanto al credere fiduciosamente nel benessere, posso affermare che papà era capace di vedere lontano: leggendo dell’alcolismo giovanile prevedeva mestamente una generazione di candidati alla cirrosi ed era sinceramente preoccupato per l’incapacità dell’individuo del futuro di avere rapporti e scambi umani. Sono portata a pensare che l’incidente che gli ha fatto rischiare di perdere una gamba quando era piccolo (nel libro lo racconta) lo abbia portato a introiettare il concetto di impermanenza.

Proprio perché non ha nessuna pretesa, questo libro è diventato per me interessante e affascinante. Ecco, se tuo padre fosse stato un romanziere come sarebbe stato?

Da osservatore ironico autoironico scanzonato e sottilmente pungente quale era sarebbe stato uno scrittore divertente e tagliente, acuminato e sarcastico (mi vengono in mente Flaiano e Marchesi). A Roma la canzonatura bonaria del prossimo si ciuccia col latte materno, a Roma nessuno, nemmeno il Papa può aspettarsi di stare su un piedistallo, da nessuna parte al mondo sentirai dire li mortacci tua quanto stai bene! cioè l’offesa a supporto del complimento. Non avrebbe potuto essere più diverso e distante da Andreotti in tutto e per tutto, eppure nelle impercettibili strizzate d’occhi che accompagnavano le frequenti frecciate del divo Giulio all’indirizzo di qualcuno, spesso talmente sottili che ci volevano un paio di secondi perché arrivassero, erano identici.

Più che raccontare una vita, cosa impossibile e per me senza senso, Piergiuseppe è un testimone. A volte mi sono domandato quanto sia difficile resistere a una forza così distruttiva come il ventennio fascista o la guerra. Eppure, la sua reazione è stata come quella di tanti altri, ossia ricostruire, risollevarsi dalle macerie. Perché oggi sembrano tanto poco di moda queste scelte?

I fascisti scempiarono il suo cugino preferito, Decio Filipponi, poco più piccolo di lui, compagno di giochi, e lo impiccarono, gli fu assegnata una medaglia al valor militare e il comune di Roma gli ha intitolato una via (sul sito dell’ANPI c’è tutto), quando hai più o meno vent’anni e in famiglia succede una cosa del genere, se non soccombi sviluppi una resistenza, una forza tale che ti mette in grado di reggere quasi qualsiasi difficoltà, poi non dimentichiamo che papà era chimico, i chimici aspettano davanti a provette, becchi bunsen, storte, ampolle, pazienti e imparziali aspettano, osservano, appuntano; aggiungo che secondo me la pazienza bovina necessaria per realizzare qualcosa di duraturo ce l’hanno contadini e giardinieri, falegnami e chi lavora con le mani, gli artisti anche. Perché un seme germogli, una pianta cresca, una colla faccia presa, il cemento si solidifichi, il colore si asciughi e via dicendo, ci vuole tempo, e il tempo per ciascuna ‘cosa’ è diverso, solo suo, e tocca darglielo cioè tocca dare tempo al tempo. Noi tre, perché nel conto c’è anche mamma, abbiamo goduto di una casa di campagna, comprata malridotta e sistemata con le nostre mani e le nostre schiene, fino all’ultimo papà ha messo a dimora piante consapevole che non le avrebbe viste crescere, io stessa, che me la godo tuttora, lo faccio come se avessi da vivere altri cent’anni, le mie azioni più abituali sono seminare scrivere e comprare libri, e nonostante la pila di quelli che mi aspettano fiduciosi sia più alta di Michael Jordan, quando salta non riesco a uscire da una libreria senza un paio di titoli. È la differenza tra un fiume che scorre e un falò che divampa e si spegne, ecco oggi è tutto un falò, si consuma tutto alla velocità della luce e poco si metabolizza. Tv commerciali e social stanno bruciando i neuroni di chi si nutre in massima parte di loro, a mio modo di vedere bisognerebbe fare una “conversione a U” e tornare più o meno al punto di partenza, ma anche avendone la consapevolezza, quanti avrebbero il coraggio, la forza e la determinazione di vivere controcorrente?

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