Si fa presto a dire Tortora…
Racconto e fotografie di Silvia Palombi
Si fa presto a dire tortora…
Cominciamo col volatile che a me piace per discrezione e dimensione, contrariamente al piccione che detesto (non me ne vogliano gli animalisti); poi c’è il colore, che mi riporta a un tempo felice quando ero piccola, c’eravamo tutti e stavamo tutti bene e nella ridipintura della casa, affidata alle mani sapienti di uno zio materno che di mestiere non faceva l’imbianchino ma il pittore, per la mia camera fu scelto il tortora, appunto, colore che ha il potere di trasportarmi tutt’oggi in una dimensione di serenità quasi beata, tanto che quando ho deciso di ‘imbiancare’ i due locali più grandi, quelli che danno sul mare, della casa in cui vivo, li ho fatti di quel colore.
E poi c’è Tortora, un paese composto da due parti lontane, una sul mare e una sulla montagna, due componenti della stessa famiglia che per mettersi al riparo dai litigi si tengono a distanza.
A Tortora Marina da qualche giorno, una bella mattina, sono più o meno le otto e mezza, salgo a Tortora centro col pullman preso a Praja, l’autista, gentile sorridente e discreto, mi dice che il ritorno è alle quindici, un po’ tardi, qualche modo troverò, magari a piedi, i chilometri non mi spaventano mai.
Scendo dalla corriera in un paese arroccato sulla montagna, bellissimo. Cammino senza meta né mappa, non mi sono preparata, non ho studiato niente, mi piace sempre farmi guidare, e deviare, da un colore, un sasso, un cancello, un cespuglio, sono sempre pronta a cambiare percorso e solitamente vengo premiata perché nella maggior parte dei casi mi imbatto in qualcosa di bello.
Attraverso lentamente un paese che porta i segni di una ricchezza passata, balconcini di marmo, archi di pietra, decorazioni, rilievi, vedo cartelli vendesi un po’ ovunque ma la gente c’è e lavora, anche a ristrutturare, riparare. Si sentono martellate, trapani, vedo giovani che sistemano insegne. Due anni fa l’alluvione ha fatto danni enormi, mi dicono, nessun morto per fortuna ma una parte è ancora chiusa al passaggio, purtroppo tanta gente se n’è andata.
Bighellonando mi imbatto nel museo archeologico piccolo e ben curato, la ragazza carina gentile e sorridente che mi accoglie mi informa che l’ingresso è gratuito. È un mio pensiero, ma le avrei detto che non sono per niente d’accordo, la cultura si paga; mantenere qualsiasi struttura costa, la carta igienica costa, il sapone pure, bisogna pagare chi fa le pulizie. Basterebbe un biglietto simbolico, la moneta da 2 euro, per esempio.
Mentre mi godo un video ben fatto che mi informa della ricchezza lasciata in questa zona da enotri, greci e romani, penso a quante cose non so, infinitamente e insopportabilmente ben più di quelle che so, e ogni volta che questa consapevolezza mi si palesa scuoto la testa scorata perché non mi basterebbero dieci vite, per una formazione almeno dignitosa. E siccome non posso farci niente, non al momento almeno, mi godo tutto con calma, le teche sono belle e i pezzi, di qualità, esposti come si deve: si vedono bene; le didascalie si leggono, non è così usuale.
Esco e piove, l’avevano detto, piove piano piano ma non smette, cammino in salita riparandomi ogni tanto; in alto, da sotto a un balcone, siccome la pioggia rinforza, entro in quello che mi pare un portone qualsiasi e che invece è un chiostro con resti di affreschi, che bellezza, ma quindi forse c’è una chiesa… esco guardo in su e vedo una cupola rotonda con cerchi paralleli in rilievo: sono coppi, le vecchie tegole; è bellissima, non riesco a staccarle gli occhi di dosso.
Giro da tutte le parti ma trovo solo porte chiuse, esco delusa, sulla piazzetta c’è un signore, gli chiedo se per caso c’è un orario di apertura, sì stasera c’è la messa, ah peccato sto andando via… aspetti, dice, e va a chiedere le chiavi a una donna che abita a tre metri, mi fa entrare e gentile e generoso mi racconta, mi spiega; non basta, quando mi parla della chiesa che c’è giù gli dico che l’ho trovata chiusa, venga con me, mi fa, devo scendere per la spesa. Entra dal fruttivendolo e chiede le chiavi ma lo informano che nel frattempo l’hanno aperta, scendiamo e anche lì mi dedica il suo tempo raccontandomi di un uomo che arrivato a Tortora dal Nord si è innamorato del posto, ha preso i voti ed è rimasto a far da parroco fino alla fine dei suoi giorni, spendendosi in ogni modo possibile per le persone e il paese e adesso è sepolto nel piccolo cimitero.
Lo ringrazio di cuore per la gentilezza, la disponibilità, la generosità e da ultimo gli chiedo se sa di autisti che fanno la spola con Tortora Marina, se non rischiassi l’acqua scenderei a piedi; sono sincera, cammino volentieri, macino chilometri. Non è d’accordo: non ha neanche l’ombrello, mi dice.
E così acciuffa il medico condotto che ha visto passare poco prima e mi affibbia letteralmente a lui, che senza fare una piega dice solo che prima di scendere deve fare una visita. Incredula e felice, perché ho vinto alla lotteria, dichiaro che posso aspettarlo per tutto il tempo che vuole, ho i giornali sul telefono.
Partiamo, a mezza costa si ferma, pioviggina leggero, dopo un quarto d’ora esce e arrivo a casa in un battibaleno asciutta e in estasi.
Ah, prima che mi dimentichi: ho scoperto che a Tortora è passato, e s’è pure fermato, Giuseppe Garibaldi (e infatti corso Garibaldi compare sui muri anche dove meno te lo aspetti) e quando si è fermato? il 3 settembre. Sicché martedì 3 settembre del 2024 ci sono andata io, lui qualche anno prima, era il 1860 ed era un lunedì.