Stranizza d’amuri

Recensione di Letizia Falzone. In copertina la locandina del film “Stranizza d’amuri” tratta dal web
“Man manu ca passunu i jonna
Sta frevi mi trasi ‘nda lI’ossa
‘Ccu tuttu ca fora c’è ‘a guerra
Mi sentu stranizza d’amuri… I’amuri”
Franco Battiato- Stranizza d’amuri
C’erano una volta due giovani innamorati nella provincia siciliana dei primi anni Ottanta. Non è l’inizio di una favola ma la storia del delitto di Giarre, in cui Giorgio e Antonio, da tutto il paese soprannominati li “ziti” in senso dispregiativo, sono stati ritrovati morti, mano nella mano, uccisi da un colpo di pistola alla testa. Una vicenda tragica insabbiata in maniera ignobile dall’omertà del paese e dalla vergogna delle rispettive famiglie. Da qui prende ispirazione l’esordio cinematografico di Beppe Fiorello, da un fatto lontano quattro decenni ma che potrebbe essere avvenuto pochi giorni fa, in una qualunque provincia italiana. Ignoranza, violenza, mascolinità tossica diremmo oggi, ma oltre a tutto questo una storia estiva di amore adolescenziale.
Sicilia, estate 1982. Nino è il figlio maggiore in una famiglia di creatori di fuochi d’artificio: gente onesta, allegra e laboriosa. Il ragazzo ha appena terminato il liceo con profitto e il suo regalo è stato quel motorino con cui scorrazza gioiosamente attraverso la campagna siciliana. Gianni è un suo coetaneo tornato dal riformatorio che vive in un altro paese con la madre e il patrigno che gli ha dato un lavoro nella sua officina e un tetto sopra la testa, ma che lo tratta con continuo disprezzo. Di fronte all’officina c’è il bar i cui avventori si dilettano a prendere in giro il ragazzo additandolo come omosessuale. Un giorno, mentre Gianni sta andando a consegnare un Ciao ad un cliente, Nino lo sperona con il suo motorino: è la scintilla che accende un’amicizia meravigliosa, che potrebbe condurre a qualcosa di molto più profondo. Ma la Sicilia rurale dei primi anni Ottanta non è il luogo per questo tipo di relazioni dai confini incerti.
Mentre le televisioni trasmettono i Mondiali di calcio e gli italiani sperano nella Coppa del mondo, due adolescenti sognano di vivere il loro amore senza paura. È una Sicilia profonda, ma soprattutto ripresa da un angolo visuale molto ravvicinato, intimo e familiare, quella che fa da sfondo ai fatti narrati. Ci sono le mani callose di chi lavora umilmente accontentandosi di poco; ci sono gli scorci marittimi e fluviali; e poi ci sono loro, Nino e Gianni. Due ragazzi che il destino decide di far incontrare per puro caso in una giornata uguale alle altre.
Un romanzo di formazione crepato da un clima drammatico, in cui l’ambiente circostante detta le leggi medievali di un tempo sbiadito. Un tempo poi sospeso, scandito dalle cicale che riempiono l’aria calda di un’estate elettrizzata dai gol di Tardelli, e rinfrescata dalla spuma, consumata frettolosamente in un bar che affaccia sulla piazza.
Nino è uno studente spensierato, con la chioma che ricorda Jimi Hendrix e con i pantaloni a zampa, forse un po’ ingenuo, cui piace bearsi di lunghe passeggiate in motorino. Inizialmente, le aspettative e il metro di giudizio morale della famiglia coincidono con quelle del figlio, per cui l’effettiva abilità nel maneggiare la rischiosa arte paterna (gli spettacoli pirotecnici) viene considerata alla stregua di un rito di passaggio, di una prova di maturità necessaria per entrare a pieno titolo nell’età adulta. Con la frequentazione di Gianni, invece, l’orizzonte di Nino non coincide più con quello genitoriale ed entra in conflitto con esso. Quanto a Gianni, questi è invece uno che ha già sperimentato la durezza della vita, quella che si concretizza nel bullismo da strada, nello stigma sociale, nel pregiudizio moralistico.
La relazione tra i due giovani esplode con la medesima dirompenza dei fuochi d’artificio, che sembra per un attimo poter spazzare via la dogmatica rigidità delle consuetudini sociali. Questo amore cerca una possibilità di riconoscimento all’interno di una società verso ciò che conosce, ma spietata verso ciò che ancora non comprende. Quella possibilità, a Nino e Gianni non viene data: forse perché i tempi non erano ancora maturi, forse per la responsabilità di quelle persone che avrebbero dovuto saperli amare senza condizioni.
“Stranizza d’amuri” riesce benissimo a far vivere allo spettatore la sensazione del rimpianto, l’amarezza del reale che entra sottopelle e resta lì a bruciare come una ferita mai chiusa. Di fronte agli eventi raccontati, inevitabilmente ci si domanda come sarebbero potute andare le cose, in un posto e in un tempo diversi. È qui che il film lavora e scava: nella sottile fessura immaginativa tra la vita reale e le vite possibili.
L’amore di Gianni e Nino è fulmineo, brevissimo come una notte d’estate; tutto il resto, lo immaginiamo. E immaginandolo, acquista potenza e mistero, acquista vita. Un amore cristallino, puro e dolcissimo, capace però di generare un forte conflitto in essere, coadiuvato dal pregiudizio del paese e delle loro rispettive famiglie: Nino e Gianni, sospesi tra l’istinto e la paura, tirati da due famiglie diverse, sono lo specchio dell’adolescenza palpitante e verace.
Un dramma intimo e delicato che esplora un’amicizia che si trasforma in amore, un sentimento sincero fatto di sguardi dolci, complicità e tenerezza. Ma si sottolineano nello stesso tempo le criticità di una Sicilia degli anni 80 chiusa nei suoi pregiudizi, nella sua intolleranza. Gianni e Nino sono due pesci fuor d’acqua che insieme trovano il loro posto nel mondo e assaporano per qualche tempo la felicità, ma il loro rapporto dà fastidio e attira l’attenzione malsana delle rispettive famiglie e della gente della zona.
“Stranizza d’amuri” tocca la sfera emotiva con discrezione puntando al cuore, ma lascia anche volutamente l’amaro in bocca per quanto accaduto nella realtà con la speranza che non debba ripetersi in futuro.
Gianni e Nino e una corsa in motorino mentre lungo la strada risuona la voce di Battiato. I due corrono felici e liberi: era questo, forse, il loro vero rimpianto, era questo l’epilogo che i due ragazzi sognavano e non hanno potuto vivere. Di certo è l’epilogo che avrebbero meritato, la giusta conclusione della loro storia: è quello che avrebbe potuto essere, e resta solo un’immaginazione dolceamara.